Il banco di prova della concreta efficacia e reale applicabilità del mandato di arresto internazionale contro Vladimir Putin emesso per la deportazione in Russia di migliaia di bambini ucraini è atteso nel prossimo mese di agosto quando a Durban in Sudafrica si terrà il quindicesimo incontro dei leaders del Brics, i 5 paesi delle economie emergenti (Russia, Cina, India, Sudafrica, Brasile).
Che cosa accadrà quando il presidente russo con un volo di stato atterrerà nella nazione arcobaleno? Sarà ammanettato e consegnato alla Corte Penale Internazionale dell’Aja per il processo? Il Sudafrica, infatti, è tra i 123 paesi firmatari nel 1998 dello Statuto di Roma che istituì la Corte Internazionale. Ma i rapporti tra le nazioni africane e la Corte sono sempre stati turbolenti. Molto probabilmente a Putin l’esecutivo di Pretoria riconoscerà l’immunità da capo di stato, la stessa che fu già applicata nel 2015 dall’allora presidente sudafricano Zuma nei confronti del ricercatissimo presidente del Sudan Omar al-Bashir (per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità) in visita nel paese. E Putin potrebbe continuare ad appellarsi in futuro alla stessa immunità durante eventuali visite ad altri paesi che aderiscono allo Statuto di Roma. Situazione sicuramente paradossale. Certamente oggi il presidente Ciryl Ramaphosa non ha intenzione di mettere a rischio la consolidata alleanza politica, economica e militare con la Russia. Riconoscenza di antica data per il sostegno fornito dal regime sovietico all’African National Congress di Nelson Mandela durante gli anni bui dell’apartheid. Ed oggi necessità di scambi commerciali e di materie prime, investimenti, forniture di armi, come dimostrano le esercitazioni militari congiunte delle marinerie di Russia-Cina-Sudafrica a largo delle coste di Durban a febbraio, proprio nel primo anniversario dell’invasione in Ucraina.
Sono 34 le nazioni africane (su 54) che aderirono allo Statuto di Roma (il Burundi si ritirò successivamente nel 2017). Ma sulla Corte Penale Internazionale da anni soffia un incessante ed oscurante harmattan. L’Unione Africana la accusa di essere uno strumento di controllo neocoloniale dell’Europa, bollandola come “giustizia bianca per i neri”. Le critiche riguardano l’attenzione (definita maniacale) riservata dalla Corte al continente africano, che ignorerebbe invece i crimini commessi in altri continenti. La sollevazione iniziò quando a finire sotto accusa furono capi di stato in carica: Omar al-Bashir in Sudan, l’allora presidente del Kenya Uhuru Kenyatta ed il suo vice William Ruto (oggi presidente), poi assolti tra molti dubbi. Ma altre assoluzioni totali rinfocolarono le polemiche, come quella dell’ex presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo.
Accuse di parzialità che sono esplose in minacce di abbandono. Se ne fece promotore proprio Kenyatta (portato all’Aja perché sospettato di aver organizzato le violenze post-elettorali del 2007) che ipotizzò il ritiro completo di tutti i paesi dell’Unione Africana. Il Burundi decise invece di uscire quando la Corte Penale avviò una inchiesta preliminare sulle violazioni dei diritti umani commessi dal governo guidato dal presidente Pierre Nkurunziza che aveva appena annunciato la sua terza candidatura. Ed il Sudafrica tuonò contro l’Aja proprio per la vicenda del mancato arresto del presidente sudanese.
Alcune nazioni africane hanno anche avanzato la proposta di dar vita ad una propria ed autonoma Corte Penale ma non c’è stato alcun seguito. Le accuse rivolte invece ai governi africani sono di voler difendere a tutti costi dittatori sanguinari, sicuri dell’immunità di fronte al depotenziamento di poteri e funzioni della Corte.
Questa complessità di rapporti e la fase politica di apertura avviata dalla Russia rende sicuri i sonni di Putin, almeno fino a quando circolerà in Africa.