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Moro, l’ultima battaglia

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Ci sono due lapidi a Roma, a ricordare quella tragedia che 45 anni fa sconvolse la vita e la storia del nostro paese: una a via Caetani, l’altra a via Fani. La prima, dove venne ritrovato il corpo di Aldo Moro il 9 maggio del 1978, l’altra dove vennero uccisi i cinque uomini della sua scorta, il 16 marzo, quando lo statista democristiano fu rapito dalle Brigate Rosse. Loro non ebbero il tempo di difenderlo, massacrati dai terroristi. Moro fu sequestrato in una prigione segreta, e per 55 giorni cercò di sfuggire alla condanna a morte decisa da un assurdo tribunale del popolo, dopo un altrettanto assurdo processo.

Fu l’ultima sua battaglia umana e politica, che sto ricostruendo attraverso le lettere da lui scritte durante la prigionia a vari interlocutori, per provare a convincerli a seguire la strada della trattativa. Mio obiettivo, cercare di chiarire i tanti interrogativi ancora aperti di quella battaglia e del suo fallimento. Fra tutti, il dilemma sulla validità della linea seguita dal governo e dai partiti che lo sostenevano, quella della fermezza, di fronte alle richieste sempre più disperate di Moro.

A 45 anni di distanza, il dibattito su quale fosse la strada più efficace per liberarlo, è ancora aperto, anche se c’è chi lo vorrebbe considerare chiuso per sempre. Ma non è così. Una lettura attenta delle lettere fa capire quante alternative, a giudizio dello statista democristiano, potevano essere esplorate per ottenere la sua liberazione, facendo riferimento al comportamento di vari Stati in casi analoghi.

In varie lettere, Moro accenna all’accordo con l’OLP fatto dopo la strage di Fiumicino nel ‘73, allo scambio di prigionieri fatto tra Breznev e Pinochet, ma soprattutto al caso di Peter Lorenz, il leader democristiano rapito dal gruppo terroristico “movimento 2 giugno” e liberato in cambio della scarcerazione di cinque detenuti di quel gruppo e di un riscatto di denaro, senza che questo fosse inteso dall’opinione pubblica come una resa dello Stato ai terroristi.

Fin dalla prima lettera, diretta al ministro dell’interno Cossiga, Moro chiarì di essere considerato un prigioniero politico dalle BR, sottoposto come presidente della DC a un processo diretto ad accertare le sue responsabilità, facendo presente però che non era solo lui messo sotto accusa, ma tutto il gruppo dirigente del partito.

Forse non a caso, subito dopo la pubblicazione di questa lettera sulla stampa, Cossiga creò un comitato per la gestione della crisi: 11 dei 12 componenti erano iscritti alla P2. Come primo atto, accusarono Moro di essere vittima della sindrome di Stoccolma. Un evidente modo per provare a screditarlo, come fecero poi in molti, mettendo in dubbio l’autenticità delle sue lettere.

Come mai c’erano così tanti piduisti nel comitato voluto da Cossiga? In un libro intitolato “Un atomo di verità”, dedicato al caso Moro, il giornalista Marco Damilano dà una chiara spiegazione: BR e P2 erano due società clandestine di segno opposto, ma unite da una convergenza parallela: l’odio verso Moro.

Nelle tre lettere inviate successivamente al segretario della DC Zaccagnini, che non fecero cambiare in alcun modo la posizione del partito, Moro si domandò se nel tener duro contro di lui, non vi fosse una indicazione americana o tedesca.
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Questa dimensione internazionale del sequestro, soprattutto l’opposizione americana al governo con l’appoggio del PCI voluto da Moro, sarà confermata anche nel 2018 dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul suo sequestro e sulla sua morte.

Neanche il tentativo socialista di proporre ai brigatisti lo scambio di Moro con un loro compagno detenuto, malato e non implicato in eventi sanguinosi, riuscì a modificare la posizione di Andreotti e Zaccagnini.

Riccardo Lombardi, compagno di partito di Pertini, scrisse allora su un giornale: se i prigionieri in questa vicenda fossero numerosi e si ponesse per essi un problema di scambio, non v’è dubbio che lo Stato tutelerebbe meglio i propri interessi accedendo allo scambio e non li tutelerebbe negandolo.
Che cosa cambia in linea di principio, se il prigioniero è uno? chiese Moro in una delle sue ultime lettere rifacendosi a quel ragionamento.

Il tentativo socialista di uno scambio umanitario sembrò aprire all’ultimo secondo una crepa inaspettata. Luigi Zanda, allora portavoce di Cossiga, lo conferma, e lo conferma anche Claudio Signorile, il vicesegretario del PSI, che aveva lavorato a quell’ipotesi. Bastava un segno di attenzione della DC, dicono, e Fanfani si era impegnato a ottenerlo.
Ma quel segnale non arrivò e la mattina del 9 maggio il corpo di Moro venne ritrovato dentro una Renault 4 a via Caetani.

I familiari rimasero in silenzio. Volevano evitare ogni polemica. Solo su una cosa furono irremovibili: niente funerali di Stato, nessun lutto nazionale. Lo aveva chiesto Moro in una lettera a Zaccagnini. “Voglio vicino a me solo chi mi ha voluto veramente bene e continuerà ad amarmi e a pregare per me.”
E fra quelli che a 45 anni di distanza, continuano a pregare per lui, ci sono anche io.


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