Dal 16 gennaio scorso l’agenda mediatica sul tema della mafia è stata di fatto monopolizzata dalla cattura di Matteo Messina Denaro. Fino ad oggi, infatti, giornali e tv hanno passato al setaccio i pizzini ritrovati dalle forze dell’ordine e i messaggi whatsapp scambiati per lo più con delle pazienti in cura, come il boss stesso, nell’ormai celebre clinica La Maddalena di Palermo. Questo interesse, assolutamente legittimo e giustificato da parte dei media per un evento atteso da decenni, stride, tuttavia, con il tenore di buona parte dei servizi giornalistici, delle inchieste, dei commenti nei salotti televisivi. Non si può negare, infatti, uno spiccato voyeurismo per particolari della vita del boss durante la latitanza che per certi versi stanno contribuendo a metterne in secondo piano la caratura criminale e ne stanno evidenziando, invece, aspetti più classicamente inquadrabili nella cronaca rosa. Se, in fondo, questa morbosità non stupisce, essa ci suggerisce comunque alcune brevi riflessioni rispetto ai processi di mediatizzazione che riguardano il fenomeno mafioso.
Il punto di partenza che è importante ricordare è che ogni narrazione – perfino ogni parola – non è mai neutra: i racconti non sono mai – non potrebbero esserlo – dei resoconti oggettivi, ma si incastrano all’interno di cornici di senso che a loro volta contribuiscono a strutturare. La mafia non fa, ovviamente, eccezione: la maniera in cui viene raccontata, in una certa misura, la modella, ne definisce i contorni e i contenuti, costruisce le lenti attraverso cui osservarla. L’elemento interessante è che gli stessi mafiosi sono particolarmente attenti a costruirsi una loro immagine pubblica, tanto all’interno del sodalizio mafioso, quanto all’esterno dello stesso, dal momento che è proprio l’immagine pubblica ciò attraverso si può struttura una rete di consenso.
Non c’è struttura di potere, anche la più violenta e sanguinaria, infatti, che non necessiti di un consenso il più possibile diffuso: il consenso è, infatti, più economico della violenza, dal momento che la sostituisce o la previene e consente di esercitare una forma di potere più profondo e potenzialmente duraturo.
Questo processo di costruzione dell’immagine pubblica della mafia è il risultato di un doppio movimento: per un verso la mafia, dall’interno, cerca di proiettare all’esterno un’immagine che ne faciliti il consenso, per un altro verso dall’esterno (dai media in particolare) viene a sua volta proiettata un’immagine della mafia cui i mafiosi stessi possono tendere a conformarsi.
Il caso di Messina Denaro è emblematico: fin dagli anni della latitanza l’immagine iconica del boss era quella con i Ray-Ban da sole a goccia che faceva tutt’uno con storie divenute leggendarie di conquiste amorose. Una rappresentazione assai diversa da quella dei padrini tradizionali e più vicina a quella letteraria e cinematografica d’oltreoceano, quella del gangster elegante e raffinato che esercita il potere con i guanti di velluto. Gran parte della rappresentazione mediatica che è seguita all’arresto ha finito per concentrarsi su questo aspetto che lo stesso boss aveva verosimilmente a sua volta sapientemente alimentato.
In linea con questa immagine di leader carismatico – nella quale evidentemente Messina Denaro si è riconosciuto e di cui si è volentieri appropriato – vanno inquadrati i pizzini nei quali il boss di Castelvetrano riprende e rafforza il mito primitivista di una mafia antagonista di uno stato incapace di garantire gli interessi del popolo siciliano. Con un linguaggio ricercato e con parole accuratamente pesate, Messina Denaro utilizza il tradizionale armamentario argomentativo che ruota attorno alla polarizzazione, all’antagonismo e alla vittimizzazione, cercando in questo modo di rafforzare la rete di consenso attorno a sé e di serrare le fila attorno ad un comune nemico di cui lo stesso boss si mostra strenuo oppositore, per certi versi apparendo quasi come un eroico resistente. Anche in questo caso l’attenzione mediatica è stata prepotentemente attratta da tali pizzini (in particolare quello del 15 dicembre 2013, una sorta di manifesto di Cosa nostra, come è stato definito) e ancora una volta il circuito della rappresentazione ha finito per rafforzare l’immagine che lo stesso boss ha con cura cucito attorno a sé.
La ricostruzione che viene fatta dell’arresto e della latitanza di Messina Denaro rimane così intrappolata in un limbo nel quale la dimensione giudiziaria viene sopraffatta dal dettaglio della cronaca rosa e la ricerca del consenso, sapientemente coltivata della mafia, rischia di trovare talora indiretto supporto nel modo in cui la narrazione mediatica viene elaborata.