Nessuno si allarmi se confesso che per almeno dieci anni della mia vita sono stato Putin anch’io.
Più precisamente, durante quel periodo, sono stato “El bel Putin de la so mama” perché mia madre aveva origini ferraresi. Se avesse avuto origini bolognesi, sarei stato “Al bel Puten dla so mama”.
In seguito, sono cresciuto e mi sono evoluto in “Mo’ che bel zuvnott!”. Non altrettanto è successo a Vladimir Vladimirovich che, nato pressoché contemporaneamente a me, ma a Leningrado (oggi San Pietroburgo), è rimasto Putin, come del resto è evidente dalle guance paffute che lui continua ad esibire, nonostante il tempo trascorso, assumendo l’aspetto di uno stempiato cherubino diabolico, patetico nella sua solitudine ma proprio per questo ancor più terribile.
Non è solo per le fattezze estetiche che Vladimir è rimasto Putin. Del Putin ha anche tutte le caratteristiche psichiche: le manie di grandezza, l’insensibilità per le esigenze altrui, la crudeltà verso i più deboli, la prepotenza, l’arroganza, la capricciosità, l’incapacità di ascoltare i consigli degli altri e di fare tesoro delle esperienze altrui per abbreviare il percorso verso la maturità.
L’infantilismo che caratterizza oggi la personalità di Vladimir sarebbe un difetto dell’età evolutiva circoscritto alla sua persona, se non fosse che lui è, oggi, a capo di una delle tre potenze mondiali più dotate di armamenti atomici, di immense ricchezze di materie prime – con in testa gas e petrolio – e di una grande struttura militare. Cosa abbia portato un Putin alla testa di una simile straordinaria potenza sarebbe troppo lungo riferirlo e forse anche inutile, dal momento che c’è arrivato e ci sta stabilmente. Sembra più importante constatare che il raggiungimento di una simile posizione di preminenza avrebbe potuto dare immenso prestigio alla Russia e allo stesso Vladimir mentre oggi, sia il suo Paese che lui stesso, nel giro di un anno, si sono venuti a trovare al più basso livello di considerazione in cui uno Stato ed il suo leader possano trovarsi. In più, in questo avvitamento nell’abisso, è stata trascinata anche la nazione russa.
In realtà, non si intravede alcuna reazione di rilievo nella popolazione russa all’aggressione militare mossa dai suoi vertici allo Stato fratello dell’Ucraina e, semmai una reazione c’è, è del tipo individuale e protezionistico come la fuga all’estero per non essere arruolati.
È questo il destino tragico del popolo russo che invece di reagire alle scelte del suo capo – che, peraltro, finisce col pagare col proprio sangue – ad esse soggiace senza ribellarsi alla violazione del diritto internazionale e al superamento di tutte le barriere dell’umana ragionevolezza.
I vertici russi lamentano lo svilupparsi in tutto il mondo della russofobia ma del tutto insensibilmente tacciono sull’origine di questo sentimento che essi stessi hanno determinato con le loro scelte guerresche insensate. Non basta che questi capetti se ne accorgano: è lo stesso popolo russo che deve prendere atto che, in assenza di alcuna reazione interna contro l’aggressione dell’Ucraina, per i prossimi decenni esso sarà esecrato ed ostracizzato, finendo col dover preferire l’isolamento interno al disprezzo che ne accompagnerà ogni uscita dai propri confini.
In questo senso il popolo russo ha già completamene perduto la guerra perché l’unica alternativa possibile, quale un’eventuale apertura della Cina o della Corea del Nord o dell’Iran (complimenti, bella compagnia!), sarebbe del tutto innaturale. Il popolo russo è europeo e fino alle ore 4,55 del 24 febbraio 2022 traeva un enorme piacere dal condividere con l’Europa il gusto e lo stile della vita. Ma lo stile di vita europeo non è gratuito e presuppone una faticosa maturazione di ogni individuo verso la responsabilità nella gestione della cosa pubblica. Come tutti i processi di maturazione, anche quello della partecipazione alla vita pubblica è un percorso di formazione lungo e faticoso perché comporta l’acquisizione e la pratica dei concetti di compromesso e tolleranza, di rispetto dell’opinione altrui, anche quando appare totalmente errata, e di rinuncia alla violenza di qualunque tipo per imporre le proprie convinzioni. È un percorso quanto mai complicato perché non basta che venga seguito dai singoli individui, ma anche dalle istituzioni in cui i singoli individui si riuniscono e che servono al controllo di un potere rispetto all’altro tra i tre fondamentali riconosciuti come indipendenti da Montesquieu in una democrazia.
La mancanza di reattanza del popolo russo è tanto più grave ove si prenda in considerazione quanto sta avvenendo in Iran, dove la ribellione si è sviluppata da vari mesi e, nonostante le più barbare delle repressioni, prosegue sia pure tra alti e bassi. Forse dipende dal fatto che i nonni dei manifestanti di oggi avevano conosciuto una maggiore libertà sotto la cosiddetta Rivoluzione Bianca dello Scià Reza Pahlavi: in realtà, nulla di sconcertante o veramente rivoluzionario, essendo comunque guidata dall’alto, ma pur sempre una forte modernizzazione da cui scaturì, per contrappasso, la rivoluzione komheinista.
Nella storia del popolo russo non si trova mai, invece, una rivoluzione avviata verso la democrazia. Anche in occasione della Rivoluzione di Ottobre del 1917, pur nata sotto buoni auspici, esso non riuscì ad emanciparsi da una condizione di totale sudditanza al potere, per quanto nominalmente ispirato proprio al popolo. Sprecata, in questo senso, è stata anche l’occasione del 1991, con la dissoluzione dell’Unione sovietica per effetto dei principi di perestroika (ristrutturazione del sistema economico) e della glasnost (trasparenza) perseguiti dal Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) Michail Gorbačëv.
Gli anni che seguirono furono caratterizzati da un’economia in gravissima crisi, da una povertà sempre più diffusa, da lotte furibonde nelle stanze del potere, dallo scoppiare di focolai di guerra (come la Cecenia) e dal diffondersi della malavita organizzata. La struttura governativa guidata da Boris Eltsin tra il 1991 e il 1999 non riuscì a superare la crisi e si mantenne al potere così a lungo soprattutto per il poderoso sostegno economico degli oligarchi che si erano impossessati dei beni pubblici dell’URSS e temevano il ritorno del comunismo. Quel decennio storico, di fatto, fu più un periodo di anarchia che di impegno verso la democrazia e lo stesso può dirsi del periodo tra il 1905 e il 1917 o quello tra il 1598 e il 1613 che avrebbe gettato la civiltà russa nel “periodo dei torbidi”.
Di fatto, nella storia del popolo russo, non si trova nessun apprezzabile spazio alla libertà di espressione, fondamento di ogni forma di democrazia e di evoluzione del popolo e la prova di questa mancanza di libertà è nell’assenza di iniziative economiche diffuse e di un progresso scientifico che non sia funzionale al potere militare, perseguito non per ergersi tra i gendarmi del mondo, ma per piegarlo alle pretese di grandezza del potere autoritario del singolo capo. La Federazione Russa va nello spazio, oppure testa missili armati in modo sofisticato, come del resto fa la Corea del Nord, ma non si conosce un televisore, un telefonino, un computer, un’automobile, una macchina per impastare il pane di provenienza russa.
Si apprezza, quindi, una diretta correlazione tra la libera democrazia – nonostante le sue grossolane imperfezioni – ed il progresso a tutto tondo dei popoli.
La riprova è nel livello medievale dell’aggressione russa all’Ucraina. La passiva accettazione interna di queste scelte dei vertici politici – quando non addirittura l’aperto sostegno, assai più diffuso di quanto si pensi – è alla base di quella ripulsa verso il popolo russo da parte di un gran numero di nazioni. Un rifiuto che quegli stessi vertici politici russi avvertono e di cui tanto si lamentano senza far nulla per eliminarne le origini.