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La lotta di classe esiste e marcia per noi

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Esiste ancora la lotta di classe? Con un metro italiano se ne vedono sicuramente delle tracce. Un esempio? Le straordinarie storie di resistenza operaia di fabbriche minacciate da chiusure e licenziamenti.

Per trovare però un movimento che unifichi i ceti popolari in un’azione comune contro l’impoverimento collettivo bisogna (per ora) spostarsi in Francia. Quello che da noi non si coglie è che il 2023 francese vede per protagonisti moltissimi giovani. E che c’entrano i giovani rispetto all’età pensionabile? Non ci avevano spiegato gli opinionisti neoliberisti (egemoni ovunque da noi) che gli interessi delle nuove generazioni sono contrapposti a quelli di quelle più anziane?

Dovremmo riflettere seriamente su queste cose. Ci aiuta una intervista a Emmanuel Carrère del 26 marzo su Repubblica. Letteralmente dice: “Sono ragazzi che manifestano contro un futuro di merda e non solo sul piano sociale. La Francia che oggi protesta è quella più profonda, dei sobborghi”. Insomma non è una bizzaria, ma una collera profonda verso un sistema economico che ti vende come ineludibili precariato e sfruttamento. E l’orizzonte diventa quello di una grande azione collettiva in difesa dei diritti sociali senza i quali una vita dignitosa diventa impossibile.

Questa risposta comunitaria è il punto fondamentale per Carrère che peraltro rispetta le ragioni di Macron ma denuncia il fatto che il Presidente non veda quelle del popolo.

E qui arriviamo al secondo punto che riguarda l’informazione (quella che vorrebbe essere indipendente dal potere, non l’altra). Da tempo rifletto sui mali prodotti da noi dall’opinionismo dilagante sui grandi media. In enorme sintesi (di cui mi scuso perché è un discorso lungo) diciamo che negli ultimi anni è sembrato che il compito dell’informazione sia diventato quello di insegnare al popolo cosa debba fare, perché deve accettare precarietà, flessibilità, sacrifici. Non ci sono alternative ci spiegano: l’unica strada per migliorare la propria condizione è il merito individuale. La crescita delle disuguaglianze si è trasformata in una sorta di simpatica conseguenza, di curiosità o gossip sulla bella vita dei super ricchi chiamati non a caso Paperoni. Qualsiasi ipotesi redistributiva delle ricchezze – concludono – è roba da Soviet e sappiamo lì come è andata a finire.

E invece, ci ricorda lo scrittore Carrère, il compito dell’informazione è quello di interpretare, descrivere i fenomeni sociali, di praticare un’osservazione attenta che non condanna il conflitto ma cerca di leggerne le ragioni profonde sostanzialmente legate all’impoverimento di fasce crescenti della popolazione.

L’ultima annotazione riguarda il titolo dell’intervista: “Vi Racconto la rabbia della Francia divisa”. E’ solo una annotazione. In Italia il giornalismo ama alla follia il verbo raccontare. Sembra che dia dignità letteraria all’informazione (anche molti amici ne sono affascinati) e invece introduce una cifra di ambiguità ( vale pure per le barzellette e per le favole) tipica delle narrazioni e dello storytelling. Non a caso Carrère ( che è anche un romanziere) non la usa mai: lui descrive, riporta, riassume ciò che ha visto, sviluppa le proprie riflessioni.

Fra l’attento uso delle parole, la loro precisione, e un’informazione arricchente e utile c’è un nesso profondo. Purtroppo troppo spesso ci sfugge. E così vince l’ideologia dominante. Quella che ad esempio ha rimosso dal vocabolario espressioni come lotta di classe e sfruttamento.


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