Basta guardare l’Italia per rendersi conto di ciò che sto per dire. Basti pensare alla differenza fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, ossia fra una leadership femminile e una leadership convintamente femminista, e non da oggi, per convenienza o strumentalizzazioni di sorta. Eppure, nessuno mi toglie dalla mente che dietro l’ascesa dell’attuale presidente del Consiglio ci sia stata anche una trovata mediatica che noi, a sinistra, abbiamo colpevolmente sottovalutato. Quando la Meloni, in piazza San Giovanni, ha esclamato “Io sono Giorgia!“, ribadendolo anche in altri contesti, ha fornito, infatti, l’impressione di una leadership informale, alla portata di tutti, vicina alle esigenze delle persone. Poi è arrivata a Palazzo Chigi e ha deciso di farsi chiamare “il signor presidente del Consiglio”. Alla lunga, la pagherà. Tralascio la stima e il mio personale rapporto d’amicizia con Elly Schlein e vengo al punto. Elly ha vinto non solo per la forza delle sue idee, non poche e spesso molto belle, ma anche per il fatto di incarnare una leadership della porta accanto. Questa è la sua forza, questa è la vera forza delle donne in questo secolo che, finalmente, si sta tingendo di rosa. È la forza dello zainetto sulle spalle, dei mezzi pubblici al posto delle auto blu, della semplicità senza populismo, del nome proprio al posto dei titoli esibiti, ostentati e rivendicati con protervia da troppi uomini che di titoli, in realtà, non ne hanno o li meritano assai poco, di un modo di fare amichevole, accogliente e alla mano che dispone nel migliore dei modi l’interlocutore; insomma, è la forza di una rivoluzione gentile che loro stesse, talvolta, fanno fatica a spiegare e di cui, in alcuni casi, sembrano quasi aver paura. Eppure, se sono arrivate fino a questo punto, se oggi presiedono la Cassazione, guidano i partiti, hanno guidato le organizzazioni sindacali, dirigono le scuole e le carceri, se sono a tutti gli effetti protagoniste della nostra società, dopo un tempo infinito trascorso ai margini, non è solo grazie alle lotte che meritoriamente hanno condotto in passato ma, più che mai, per aver dimostrato di saper gestire la cosa pubblica complessivamente meglio rispetto a noi maschi. Senza generalizzare, il più delle volte, una leadership femminile e femminista garantisce standard più elevati sotto il profilo dell’umanità e dell’attenzione alle esigenze del prossimo, una gentilezza di fondo che spesso fa la differenza, una passione maggiore, un pragmatismo che consente di trovare le soluzioni migliori e un’attenzione agli ideali che troppe volte noi uomini tendiamo ad accantonare. Questa è la loro bellezza, la loro unicità, la loro grandezza, ed è questo il motivo per cui il Ventunesimo secolo sta vedendo il riscatto e la piena affermazione delle donne, generando un cambio d’opinione e punto di vista anche nella componente maschile e favorendo un’armonia che non può e non deve essere sottovalutata. Se tutto ciò sta accadendo, e sta accadendo, è perché anche noi ci stiamo rendendo conto di quanto sia preferibile un potere che profuma di speranza, che ha uno sguardo sorridente sulla vita e sul mondo, che sa coniugare competenza e serietà senza darsi eccessive arie, che ha una scala di valori ben definita e che preferisce le parole alle urla. Non è il caso di tutte le donne, ovviamente, ma a sinistra, ed è una tendenza globale, dall’America alla Nuova Zelanda, passando per la maggior parte dei paesi europei, questo sta avvenendo ed è molto significativo.
Oggi, 8 marzo, si ricorda una tragedia: il rogo in cui, il 25 marzo 1911, a New York, persero la vita oltre cento operaie di una fabbrica di camicie. Pertanto, evitiamo di parlare di festa e concentriamoci sui diritti ancora da conquistare, innanzitutto sui luoghi di lavoro, evitando tuttavia ogni sorta di isterismo, di eccesso e di inutile contrapposizione di genere e prendendo atto degli incredibili passi avanti che sono stati compiuti rispetto al passato. Molta strada resta ancora da percorrere, ma negare il cammino fatto sarebbe ingeneroso e persino pericoloso, in quanto potrebbe favorire una regressione sul terreno cruciale dei diritti e delle conquiste democratiche e civili finora ottenute.
Quando penso alle donne, penso non solo alla politica ma anche a grandi personalità del mondo dello spettacolo che si sono affermate con il solo nome: Mina, Giorgia, Tosca, Elodie e molte altre ancora. Vale anche per le regine: Elisabetta II è durata settant’anni e l’abbiamo sempre chiamata Elisabetta, a conferma di un potere che non può essere sminuito o messo in discussione tanto facilmente, fatto salvo il doveroso spirito critico che deve essere esercitato anche nei suoi confronti. Scrivo queste riflessioni in un giorno particolarmente delicato, mentre in Afghanistan e in Iran si stanno verificando episodi strazianti, fra donne private di ogni dignità e studentesse avvelenate per tentare di fermare una protesta che, lo sappia il regime, non si fermerà mai, almeno non prima di aver prevalso sull’oscurantismo e sulla barbarie che da troppo tempo imperano in quel paese. E scrivo con gioia, perché finalmente vedo le nostre sorelle, che non sono per nulla “il secondo sesso”, affiancare noi uomini e, talora, anche superarci. Questa crescita femminile è il miglior viatico per costruire tutte e tutti insieme un avvenire diverso e migliore; un avvenire da cui saremo proprio noi uomini, non più costretti a indossare una maschera truce e ridicola, i primi a trarre giovamento.
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