BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Il paradigma argentino

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A Buenos Aires si vede ben rispecchiata la voragine che divide i 45 milioni di argentini: la chiamano grieta, se ne dibatte pubblicamente. L’hanno scavata in due decenni l’inflazione (ora al 104,6 per cento), l’impoverimento (38 per cento) un’insanguinata cronaca nera (attentati del narcotraffico). Il dramma è visibile e quotidiano nelle strade. Eppure, d’improvviso, a richiamare l’attenzione sono argomenti a prima vista molto diversi. Le file davanti ai botteghini di stadi, arene e teatri abbattono clamorosamente ogni record di affollamento, sovraccaricano il web fino a stremarlo con gli acquisti on-line.

Su qualsiasi ribalta, il grande spettacolo fa puntualmente il tutto esaurito. L’informazione e i social da una parte accompagnano il fenomeno, esaltandolo; dall’altra non riescono, nè vogliono nascondere qualche perplessità. La siccità taglia l’export agricolo, i servizi primari faticano a soddisfare le necessità degli utenti, la politica delude. Del nuovo stress che colpisce il banking internazionale se ne parla il meno possibile. Forse per un tacito scongiuro di massa. Con l’economia nazionale resa asmatica dall’enorme debito pubblico e l’incubo del default, il tema è troppo ansiogeno.

Al Monumental, la cancha del River Plate, gioca la Seleccion albiceleste campione del mondo in Qatar. A capitanarla c’è il celeberrimo Lionel Messi arrivato da Parigi (gioca nel Saint Germain). Affronta la nazionale di Ciudad de Panama, scesa per l’occasione dal Centroamerica all’Eldorado del foot ball internazionale (ci sono calciatori di 12 anni già sott’osservazione di club europei…). Una compiaciuta esibizione di astri del pallone più che una vera partita di calcio, per l’evidente disparità delle forze sul campo. Essenzialmente in disputa c’è l’incasso, più che cospicuo. Le richieste di biglietti sono state un milione 476mila!

Stupefatti da questa folla inimmaginata, giornali, siti web, radio e TV hanno messo virtualmente uno dietro l’altra altrettante persone, trovandosi a sommare così una coda di oltre 900 chilometri. Le 63 mila entrate disponibili (altre 20mila sono state riservate per le vendite all’estero) sono andate esaurite in 129 minuti. Da un minimo di 45 fino a 220 euro per le più care: prezzi da mercato super-opulento. Lo sconcerto è notevole, generalizzato e manifesto. Qualcuno ci sta sveglio la notte: l’Osservatorio di Psicologia Sociale dell’Università di Buenos Aires ha rilevato proprio la settimana scorsa che il 38,8 per cento degli argentini dorme poco e male.

La sociologia di pronto impiego ne azzarda letture abbastanza univoche. Il marketing, ormai mobilitato in permanenza nella massima promozione commerciale di qualsiasi manifestazione, mira puntualmente a trasformarle una dopo l’altra in avvenimento. E l’avvenimento in mito. Per soddisfare e al tempo stesso rialimentare nel pubblico, tra i giovani principalmente, una continua richiesta di pathos. Che gli antichi greci riservavano alla rappresentazione tragica, mentre tra noi viene succhiato come caramelle per la tosse.

Non a caso e non da oggi si parla di società dello spettacolo. Il cui ubi consistam è offrire l’opportuno contesto al facile desiderio d’ identitarismo di quanti guardandosi allo specchio vogliono potersi dire: c’ero anch’io, dunque esisto. Una parte almeno dei quali (difficile quantificarla, ma con certezza si estende alle nuove generazioni con bassa capacità d’acquisto), pur di riconoscersi in quest’estetica del compiacimento stravolgono la propria gerarchia dei consumi, sostituendo l’essenziale con il superfluo.

I concessionari argentini del marchio Lollapalooza, il festival musical-gastronomico inventato ormai parecchi anni addietro negli Stati Uniti, hanno affittato un ippodromo nei pressi di Buenos Aires per ospitarvi i 100mila prenotati: un altro successone. Tre giorni di rap, rock, punk, funk, un’articolazione a rullo continuo di scenari animati in vivo da stars internazionali contrattate tra nuovo e vecchio mondo; rilanciate dalle ultime tecnologie su video-audio diffusi in una costellazione di bancarelle in cui primeggiano i cibi da assaggio rapido, senza che manchino il ristoro gourmet e gadget d’ogni specie.

Una baldoria da iper-mercato dell’intrattenimento full-immersion. Un ibrido in stile multiverso (è l’ultima moda presentata come cosmopolitismo), un doping emozionale in cui la voglia di distinguersi finisce per ammucchiare i partecipanti gli uni sugli altri (contraddizioni dell’individualismo esasperato). C’è chi ricorda che negli Stati Uniti anni Trenta del secolo scorso era così e -anzi- molto peggio (miseria, sbornie semi-clandestine e gangsters), solo che ora anche lo sballo è di massa e non ci sono più Faulkner e Scott Fitzgerald a raccontarcene i retroscena.

Ma c’è ancora un altro “tutto esaurito”, di segno diverso, anzi contrario, ad articolare questo contrastante paradigma argentino. E’ Resurrezione, la seconda sinfonia di Gustav Mahler, nella versione teatrale che il regista italiano Romeo Castellucci ha presentato per la prima volta lo scorso anno al festival francese di Aix en Provence. L’improvvisa scoperta di una fossa comune: il pietoso, meticoloso recupero di decine e decine e decine di cadaveri, rivestiti di candidi sudari e allineati uno accanto all’altro sotto lo sguardo d’un pubblico ammutolito. L’incessante funerale scandisce la lenta ma inesorabile lezione di coscienza sulla più bieca negazione di umanità che colpisca al cuore la civiltà occidentale.

Vi hanno assistito 15mila persone ogni sera nel corso di una settimana, un’affluenza eccezionale e socialmente promiscua. L’eccidio è un’antica barbarie che non cessa. Una crudeltà priva di confini: scavalca tempi e spazi. Attraverso la maestosità della musica, Mahler ha inteso esprimere i suoi sentimenti sulla morte come fine naturale della vita e celebrarne un senso di invisibile continuità ideale. La messa in scena di Castellucci, però, la storicizza e trasportata in Argentina alla vigilia del quarantesimo anniversario del colpo di stato militare (24 marzo 1976), assume un inequivocabile significato culturale e politico.

Buenos Aires è anche la capitale dei desaparecidos. Familiari e organizzazioni per la difesa dei diritti umani si preparano come ogni anno a rivendicarne la vita in una grande manifestazione. Di fatto: la verità sulla sorte riservata loro dai militari. E lo spettacolo, sebbene inaugurasse la stagione del Colon, un teatro di fama continentale, per la sua grandiosità scenografica (un prospetto scenico lungo 60 metri e profondo 30, costruito con tonnellate di terra, dove arrivano ambulanze, scavano trenta attori e un caterpillar, investiti infine da una pioggia scrosciante e liberatoria), è stata allestita in un padiglione della Rural, l’Associazione dei grandi produttori agricoli considerata l’alleata storica dei militari.

Quasi un territorio nemico. In cui nondimeno al termine di cento minuti il crescendo delle note di Mahler è sfociato nel finale pieno dei cinquanta orchestrali e delle cento voci del coro, senza incrociare neppure un sussurro tra il pubblico. C’era il timore d’un buuuhh, d’un fischio o più d’uno. L’ascolto è stato invece di un’attenzione religiosa. Dunque c’è un paese distratto ma al tempo stesso pacificato? E la grieta? Le disillusioni della politica fanno appassire le passioni, quelle animose quanto meno, e questi 40 anni ne hanno sommate molte. Ma Resurrezione è anche un movimento della memoria come atto creativo di vita, resurrezione delle coscienze. Il paradigma argentino ha i suoi enigmi.


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