E’ stato un testimone del 900. Scorrere l’elenco delle “opere” realizzate da Gianni Minà (perché di opere si tratta, che siano reportage, libri o film) dà l’esatta dimensione del suo instancabile lavoro di cronista. Un cronista capace di scavare nelle storie e nei protagonisti per cercare verità. E’impressionante la mole di materiale scritto e filmato che appartiene di diritto alla storia del giornalismo, non solo italiano.
Minà ha raccontato la vita attraverso i fatti. Con coraggio e lealtà verso spettatori e lettori. Un coraggio che lo ha spinto a fare le domande che il pubblico si aspettava di ascoltare, senza reticenze o timidezze. Affrontando di petto gli argomenti come deve fare un testimone della realtà.
Non so quanti ricorderanno in queste ore segnate dalla tristezza per la sua scomparsa che nel 1978, inviato per la Rai ai Mondiali di Argentina, venne ammonito e poi espulso dal paese sudamericano per aver cercato di raccogliere informazioni sui desaparecidos e aver rivolto precise domande, in piena conferenza stampa, a Carlos Alberto Lacoste, responsabile dell’organizzazione di quell’evento. Mentre in troppi accettavano in silenzio che il calcio coprisse l’orrore del colpo di stato e la violenza che aveva provocato. Sportwashing diciamo oggi, in realtà vecchia tentazione dello sport di cancellare la realtà, di nasconderla in cambio di gol diventando complice di dittatori e oppressori di diritti.
Impossibile elencare i personaggi che si sono “confessati” al suo microfono. L’elenco è smisurato. Ma spesso c’era un tratto comune che li univa: la sofferenza. Che si parlasse di sport, di storia o di politica. La sofferenza e la rivolta contro le ingiustizie e i soprusi. Perché Minà sceglieva la parte da cui stare. Era sempre al fianco degli ultimi che spesso non avevano voce.
Anche per questo era amato dagli spettatori in una Rai che, come lui, ha avuto spesso il coraggio di essere veroservizio pubblico.
Per gli innamorati dello sport Minà è il testimone biografo di Muhammad Alì o Maradona; per quelli del cinema di Federico Fellini o Robert De Niro; per quelli della musica di Fabrizio De Andrè o Giorgio Gaber. Ha realizzato una “Storia del Jazz” in quattro puntate; ha ideato “Blitz”, programma profondamente innovativo; ha diretto il lungometraggio” In viaggio con Che Guevara” ripercorrendo con l’ottantenne Alberto Granado la strada dei “Diari della motocicletta”.
Ha avvicinato gli italiani al mondo latinoamericano offrendo scorci di storia sul Chiapas e sugli indigeni Maya del Messico. Ha intervistato per 16 ore Fidel Castro.
Un gigante del giornalismo. Forse l’ultimo di un’era nella quale la narrazione della realtà era ancorata a solidi principi. Il primo dei quali era informare collocandosi dalla parte del pubblico.
Per questo in molti oggi sono tristi e un po’ smarriti.