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Francesco e il Dio d’Avvento 

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Papa Francesco è entrato nelle nostre vite il 13 marzo 2013. Era un mercoledì e ci eravamo ritrovati, come comunità di Articolo 21, per discutere del nostro futuro in seguito alle Politiche che hanno mutato per sempre il corso della nostra storia. C’era in noi ansia, paura, incertezza ma anche un esile filo di speranza, chiamato Rodotà, che poi si è infranto nella maniera che tutte e tutti sappiamo. Eravamo curiosi e spaventati al tempo stesso, proprio come lo siamo adesso. Ricordo ogni istante di quella sera, a cominciare dalla fumata bianca, quando piazza San Pietro, come sempre accade in questi casi, ha avuto un sussulto di felicità, centinaia di migliaia di mani hanno levato in alto i telefonini e quest’uomo vestito di bianco, venuto dalla fine del mondo, per sua stessa ammissione, si è presentato con sconvolgente semplicità. Nessun papa aveva mai accettato la sfida di chiamarsi Francesco. Da allora, nella Chiesa e non solo, è cambiato tutto. Questo pontificato, infatti, ci ha posto di fronte a domande esistenziali, ha scardinato ogni zona di comfort, ha posto alla vecchia e sfinita Europa quesiti taglienti, ci ha obbligato a riflettere sulle storture della globalizzazione, ha fornito una luce e uno spazio mai avuti prima ai movimenti ambientalisti e per i diritti, ha restituito centralità e voce alle donne, ha preso per mano agli ultimi, ha abbracciato concretamente le periferie del pianeta, è andato ovunque la politica non ha mai avuto il coraggio di andare e ha messo anche gli Stati Uniti al cospetto dell’insostenibilità di un sistema politico ed economico che uccide, oltre a creare malessere, disuguaglianze e disperazione sociale.
Francesco non ha mai avuto paura di essere impopolare, e forse anche per questo è popolarissimo. Non ha mai avuto paura di sfidare il pensiero dominante, di contrastare i dogmi del liberismo selvaggio, di schierarsi contro i signori della guerra, di aprire le braccia alle altre religioni, di rivendicare la grandezza di un unico Dio variamente declinato, di rispettare fino in fondo anche gli atei e gli agnostici e di predicare gli ideali del Vangelo, in opposizione all’orrore della Bibbia del capitalismo contemporaneo basata sui disvalori del Washington Consensus e su concetti aberranti come l’avidità elevata a virtù.
Del resto, solo un Papa venuto dalla fine del mondo avrebbe potuto squarciare il velo di ipocrisia che circondava da decenni le nostre istituzioni, ricordandoci anche le nostre colpe storiche: dal colonialismo alle due guerre mondiali con cui abbiamo insanguinato il Novecento. Solo questo italo-argentino che ha conosciuto sulla sua pelle una feroce dittatura avrebbe potuto indurci a riflettere sull’importanza della democrazia e sulla sua intrinseca fragilità. Solo questo pastore di anime che non ha mai puntato il dito contro nessuno avrebbe potuto avere la fermezza necessaria per provare a risolvere, o quanto meno ad affrontare concretamente, i mali atavici di una Chiesa che era rimasta indietro, che si era chiusa in se stessa, che aveva smesso di parlare ai deboli, che non aveva saputo cogliere le incredibili opportunità offerte dalla rivoluzione telematica tuttora in corso e che aveva allontanato da sé soprattutto i giovani.
Francesco, portando il nome del poverello di Assisi, facendosi carico del dolore dell’umanità, recandosi in pellegrinaggio a Lampedusa e a Bangui, rinnovando un principio cardine come la misericordia, cui ha dedicato addirittura un Giubileo straordinario, riaffermando la forza del perdono e lo splendore della carità, Francesco, con la sua schiettezza, ci ha mostrato la società come dovrebbe essere, come tutte e tutti vorremmo che fosse ma come purtroppo non è, anche perché non ci impegniamo abbastanza affinché questo avvenga.
Infine, ha parlato di pace, giustizia e dignità della persona. Ha definito la guerra il male assoluto e si è proposto, anche in queste ore, come mediatore nel conflitto russo-ucraino, senza stabilire le ragioni e i torti, senza schierarsi a favore di Putin o di Zelens’kyj e rilanciando l’idea di una fratellanza universale che troppi governanti hanno accantonato, in nome di un bellicismo tanto pericoloso quanto ridicolo.
Negli occhi di questo Papa è racchiusa l’umanità più vera, quella che abbiamo smarrito, quella che da dieci anni non finisce di sorprenderci, quella che non alza steccati, non costruisce muri, chiede perdono ai migranti morti in mare, si batte contro ogni forma di violenza e di tortura, non tollera soprusi e discriminazioni, non accetta che qualcuno venga escluso e accoglie chiunque, andando al di là delle apparenze, delle etichette e di ogni pregiudizio.
Dieci anni dopo, come detto, nulla è rimasto come allora. Il Covid e la guerra hanno sconvolto e fatto crollare le nostre residue certezze. Una speranza, tuttavia, ci è rimasta: quella di poter guardare al domani con un altro spirito. E nei giorni in cui ricorre il settantesimo anniversario della morte di Stalin, la sinistra che un tempo, colpevolmente, ebbe stima di un dittatore, si ripensa intorno alla figura di un sincero democratico, di un nemico di tutti i conflitti, di un uomo fra gli uomini, di una figura che non accetta alcun culto della personalità. Il che, negli anni dell’abisso e della personalizzazione sfrenata di tutto, è la notizia più bella, un’opportunità di guardare avanti con ottimismo, forse l’unico e l’ultimo sogno che ci è rimasto.

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