Citto Maselli: La mia Lettera aperta… alla sinistra in crisi (una delle ultime interviste al regista)

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Le sue opere, la sua storia, il suo impegno politico. A colloquio con il grande regista “protagonista” del docufilm di Daniele Ceccarini “Citto” (l’intervista è del 6 ottobre 2022)

Il 10 ottobre è una data importante per chi ama il cinema. Arriva infatti nelle sale Citto, il film documentario realizzato da Daniele Ceccarini e presentato, in anteprima, al Pesaro film festival. Un lavoro interessante, incentrato sulla figura del grande regista Citto Maselli di cui si ricostruisce il profilo, la storia, il lavoro ma non solo. Citto (il nome deriva dal diminutivo di Francesco ed è frutto dell’intuizione di suo zio Luigi Pirandello), utilizza foto d’epoca che lo vedono con ad autori come Zavattini, Visconti, Antonioni, brevi frammenti di film in cui si riconoscono attori straordinari come Gianmaria Volonté, Claudia Cardinale e tanti altri, amici, registi, collaboratori, compagni di vita e di impegno politico.

Maselli, sulla soglia dei 92 anni rivendica la propria identità e il proprio ruolo politico. Scorrono e si alternano nel documentario, personalità del cinema a dirigenti politici, intellettuali, uomini e donne che lo  hanno incrociato  nel suo percorso. Grazie anche alla collaborazione della sua compagna Stefania Brai, abbiamo avuto modo di intervistare il maestro Citto Maselli nel senso profondo del termine, che ha conservato l’anima giocosa, profonda ma limpida con cui ha attraversato il secolo e le sue risposte conservano una forza e una modernità che hanno ancora molto da insegnare.

La prima domanda è d’obbligo: si riconosce nel modo in cui è stato raccontato nel lavoro di Daniele Ceccarini?
Francamente provo quasi imbarazzo per come il film di Daniele si esprime positivamente nei miei confronti. Mi piacerebbe poter essere davvero come sono raccontato nel film. Ma voglio anche dire che il regista e i suoi collaboratori hanno fatto un lavoro eccezionale, considerando oltretutto che è un film interamente autoprodotto. La cosa che più mi ha colpito e commosso è l’amore di Daniele verso il cinema in generale e verso il mio cinema.

Le attrici e gli attori con cui ha lavorato hanno un modo di parlare di lei che colpisce. Colgono la sua capacità  nel dirigerli sul set e contemporaneamente dicono di sentirsi profondamente rispettati come professionisti. Più di uno parla di amore verso chi è inquadrato dalla cinepresa. Cosa pensa di queste considerazioni?
Nel corso degli anni in realtà ho modificato il mio modo di lavorare con gli attori. Sono partito dall’estrema autoritarietà, seguendo Visconti e in parte Antonioni, nel senso che tendevo ad impostare nei dettagli tutta la recitazione. Poi sono cambiato radicalmente: cerco prima di tutto il rapporto umano e riscrivo il copione mano a mano che va avanti il mio lavoro con gli attori. Ho un profondo rispetto del loro lavoro perché conosco a fondo quanto è delicato e difficile (forse anche perché sono stato per molti anni il compagno di un’attrice). E sono molto felice che questo rispetto venga recepito dagli attori che hanno lavorato con me.

Ceccarini coglie il valore politico del suo lavoro. Come spiegherebbe ad un regista di oggi l’importanza di fare una scelta militante?
Gli racconterei quello che mi ha insegnato Luchino Visconti, di cui ho avuto l’onore di essere stato amico e assistente alla regia: da un lato l’etica del lavoro e dall’altro la consapevolezza che stai facendo un lavoro artistico ma che insieme hai una enorme responsabilità umana e sociale, che poi è anche politica. È la lezione che io, da comunista, ho cercato di mettere in pratica nella mia vita. Come ho già detto, sono dell’idea che non solo questa società debba essere cambiata, ma che l’arte ha una responsabilità e una possibilità in più in questo processo di cambiamento, per contribuire a creare una coscienza generale. Direi ad un regista, oggi, che anche con l’arte si può cambiare il mondo.

Nel docufilm c’è una attenzione particolare sugli inizi, a partire dall’esordio con Zavattini in Storia di Caterina. Come ricorda quell’esperienza?
Zavattini oltre che un grande scrittore e sceneggiatore è stato un grande intellettuale. Intellettuale avido di confrontarsi sui grandi temi del presente con altri intellettuali e con i giovanissimi che lo incuriosivano. Io ero tra questi nel 1951, quando passavamo delle lunghissime serate da lui con Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci e Augusto Frassineti per un film a episodi da immaginare e scrivere, ma in realtà per discutere di tutto: dalle ombre viola di Manet alla modernità sbalorditiva di Goya, dalla riscoperta di Gongora alla pubblicazione di Sant’Elia da Scheiwiller, dal ruolo dell’Unione sovietica di allora alla guerra in Corea dove erano intervenuti da poco “i volontari cinesi” creando discussioni a non finire e portandoci fin da allora implacabilmente al tema centrale della pace. Zavattini aveva visto uno dei miei primi documentari: Bagnaia. Ne era entusiasta e mi dette la possibilità di fare il mio vero primo film. Era convinto che avrei fatto una cosa giusta e forse è la cosa più bella che ho fatto. Con Zavattini si sviluppò poi un sodalizio politico-culturale che è durato 50 anni, fino alla sua morte.

Lei ha provato a rivoluzionare il festival di Venezia mettendo in connessione esperienze artistiche anche molto diverse fra loro. Pensa che nel cinema, come nella vita sociale, sia ancora praticabile il concetto stesso di “rivoluzione”?
La “rivoluzione” di Venezia era nella trasformazione del festival in una istituzione che proponeva a tutti gli artisti di tutto il mondo e di tutte le discipline un laboratorio di sperimentazione, esposizione e confronto capace di consentire alla cultura e all’arte uno sviluppo slegato dalle logiche mercantili e dagli infiniti condizionamenti che pesano su questo settore determinante nella e della vita di tutti. Anche quella piccola rivoluzione è stata poi sconfitta con un ritorno alla cosiddetta “normalità”. Così come sono state sconfitte quasi tutte le conquiste sociali e culturali della metà degli anni 70, che riguardavano i diritti fondamentali dei lavoratori. Per cui sì, il concetto di rivoluzione – nella produzione artistica così come nella società – non solo è ancora praticabile, ma sempre più necessario. C’è uno straordinario editoriale dei primi anni 70 di Luigi Pintor che finisce con parole per me illuminanti, il cui senso ho cercato di illustrare in tanti miei film: lui parla della globalizzazione, dei suoi effetti devastanti, del dominio dell’economia e del profitto ai danni dei parlamenti che divengono “lacci e laccioli” e dei sindacati che non sono altro che “nemici da battere”; tutto ciò – dice Pintor – determinerà migrazioni di interi continenti, vi saranno catastrofi e tragedie inenarrabili: «finché la terra tremerà di nuovo sotto i nostri ben calzati piedi».

Ripensando a Lettera aperta a un giornale della sera cogliamo ancora una grande attualità micidiale, anche se il mondo del XXI secolo è profondamente cambiato. Quali corde voleva toccare con quel film?
In Lettera aperta parlavo di sentimenti e contraddizioni che avevo io stesso vissuto sulla mia pelle: non era una storia vera, ma vero era il meccanismo del rapporto tra intellettuali e partito. È il tentativo di raccontare proprio il disagio profondo di essere persone che vogliono cambiare il mondo dentro un ambiente tutto organizzato per la costruzione del consenso, per l’adeguamento all’esistente. Chiunque sia comunista, in una società capitalistica, vive queste contraddizioni: gli intellettuali in particolare, che hanno canali privilegiati di potere, di denaro, di esposizione mediatica. Oggi il ruolo degli intellettuali comunisti – ma direi di qualunque intellettuale degno di questo nome – è quello della costruzione assidua, accanita di una cultura critica, di un’intelligenza critica della realtà. Dice Gramsci: «Lottando per modificare la cultura… si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno … ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria».

Chi parla, nel documentario di “Storia d’amore” ne coglie il profondo senso politico, anche qui lei sembra sperimentare qualcosa nel narrare che oltrepassa ogni definizione di genere. È questo anche un manifesto profondo del tuo essere comunista?
Ho sempre cercato di sperimentare linguaggi diversi a seconda di quello che volevo esprimere. Quando dico che i film sono prototipi e non prodotti, voglio dire proprio questo: ogni film è un’operazione espressiva unica che non può e non deve ricadere nelle formule preordinate. Riguarda l’essere autore più che l’essere comunista. Se poi le due cose coincidono…

Wilma Labate racconta dei giorni del G8 di Genova in cui andaste in tanti, come registi, a costruire un racconto collettivo necessario. Esiste ancora secondo lei il bisogno di un intellettuale collettivo in grado di capire il presente?
I film collettivi sono nati dall’esigenza di molti autori di raccontare la realtà più profonda delle conflittualità che non sono sempre e necessariamente lotta di classe. Per questo costituimmo l’associazione “Cinema del presente”. La progettazione, la scelta dei temi, la chiave di lettura era frutto di un lungo lavoro collettivo, ma poi lo “sguardo” sulla realtà era ovviamente individuale, per tornare con il montaggio, a formare un “racconto collettivo”. Ma non si può parlare di intellettuale collettivo. Se poi mi chiedi se penso che per capire il presente e ancora di più per cambiare il presente ci sia bisogno di un partito-intellettuale collettivo, la risposta è assolutamente sì.

Il mondo intellettuale e culturale che viene raccontato nel lavoro di Ceccarini  rappresenta con molte sfumature il suo modo di guardare al mondo e all’umanità. Quali sono quelle per lei più importanti?
Sempre guardando alla conflittualità di classe: non però in modo astratto ma attraverso le sofferenze, le contraddizioni, le difficoltà umane e individuali oltre che sociali.

Da ultimo c’è una scena in cui Ken Loach racconta di quando concludendo una serata con vari registi, lei intonò l’Internazionale e gli altri le vennero dietro, ognuno con la propria lingua. È forse quella “futura umanità” in tutte le lingue che dobbiamo, come ogni utopia, continuare ad inseguire?
Assolutamente sì. La versione francese dell’internazionale dice infatti che l’internazionale sarà “il genere umano”.

Fonte: Left


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