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Bros di Castellucci: dove la coscienza cede il posto all’alienazione di un interminabile presente

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Sul palco del Teatro Argentina di Roma, dal 9 al 12 marzo, Romeo Castellucci – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia e Chevalier des Arts et des Lettres della Repubblica francese – porta in scena ‘Bros’, un’allegoria potente sulla violenza e sull’alienazione di un pensiero critico, con ‘attori’ non professionisti ignari del proprio ruolo ma che eseguono ordini impartiti loro tramite un auricolare. 

 

Vestiti da poliziotti e comandati da un auricolare agiscono senza sapere il perché. I protagonisti di ‘Bros’ di Romeo Castellucci, autore di fama internazionale, non sono attori professionisti. Gli stessi vengono reclutati per andare in scena ignari della loro parte. Il loro unico compito è quello di eseguire gli “ordini” che ricevono tramite un auricolare, senza pensare.

Ciascun attore, prima di calcare la scena, si impegna formalmente, per iscritto, a rispettare fedelmente i propri doveri; tra questi, quello di rimanere all’oscuro del contesto narrativo e di eseguire alla lettera le indicazioni che riceverà nel corso dello spettacolo.

Un modo geniale, quello scelto dal regista, per dare voce ad una coscienza oramai imbarbarita, muta, rispetto ai tragici accadimenti del nostro tempo – una visione profetica quella dell’Autore –, che cede il passo all’alienazione governata da una dittatura invisibile. Una pièce in cui il linguaggio dei corpi appare incredibilmente potente e non reclama, anzi bandisce, la presenza di una voce divenuta oramai inutile.

O forse, più semplicemente, le parole non servono perché potrebbero raccontare un’altra realtà, impossibile da comprendere.

La scena si apre con un uomo vestito di bianco, con una lunga barba; ha l’aspetto di un profeta. Egli pronuncia le parole del profeta Geremia, quelle con cui mette in guardia Israele dalla schiavitù, ma le stesse vengono espresse in una lingua sconosciuta ai più, a significare che la verità viene sistematicamente ignorata, annullata!

Una potente allegoria sulla violenza e sulle degenerazioni del potere.

Un esperimento teatrale di grande potenza, in cui la coreografia, i suoni, talvolta assordanti e l’utilizzo delle luci su una scena che resta tetra per tutta la durata dello spettacolo – un atto unico di 90 minuti – risultano molto impattanti. Una riflessione profonda sul rapporto con l’autorità e le responsabilità individuali e collettive. Uno spaccato sull’automazione e sull’alienazione. Uomini che come burattini eseguono ordini, incapaci di ‘disobbedire’, privi di un briciolo residuo di coscienza critica. E’ quello che siamo diventati?

 

È un paradigma di velocità massima che brucia ogni interstizio critico. Sembra coincidere con una forma di ‘abbandono’, un votarsi, un annullarsi nella parte. Una parte che gli Attori non conoscono. Appaiono gesti intimi, a vederli dall’esterno, e lo sono, ma noi sappiamo anche che sono gesti ‘intimati’, in una oscura confusione tra intimità e intimazione; in una frenesia che non lascia spazio al ripensamento – ha spiegato Romeo Castellucci in una nota – ciò che si vede è un mucchio di azioni che si declinano in dinamiche di saturazione e svotamento del palcoscenico, fino a riempire e spogliare il mondo. Si tratta di azioni semplici, quotidiane, forse eccentriche perché fuori contesto, ma ben riconoscibili ed eseguite individualmente. Vi è una prepotenza dell’azione rispetto al pensiero, il quale non sembra avere alcuna importanza qui; il pensiero abdica al suo ruolo di causa che genera azioni, e pure a quello di giudice delle azioni appena compiute. Tutti sanno esattamente cosa fare, ma questa veduta, che si apre come da una terrazza sporgente su una piazza, suscita la domanda: chi sono? cosa fanno? dove vanno? E ci accorgiamo che, nel loro essere individui, sono, in realtà, simili, anzi somiglianti. Sono fratelli. O forse la moltiplicazione allucinata di una stessa persona che, nel medesimo tempo, condensa centinaia di azioni differite. Non decisioni. Ma esecuzioni. In un tempo strozzato. A rafforzare la somiglianza la comune uniforme che indossano. È la divisa tipica da poliziotto del cinema americano. Muto e comico. Tale iconografia è lì per convocare la Legge che prepara e innesca il dispositivo del disastro. Il comico come hard-core della Legge. La potenza del comico come congegno fondato sul basso materialismo del corpo e sul disordine curva l’accadere in una dimensione oscura e perturbante. Il poliziotto, che ha il compito di far rispettare la Legge, qui è vettore di una Legge che si trasforma puntualmente in farsa. Alle presenze di questi Attori è chiesto di incarnare una qualità scenica che vive nell’istantaneità di compimento dell’azione; che taglia fuori ogni psicologia meditata per far spazio alla verità dell’esperienza, perché ciò che conta, qui, è l’immediata incorporazione della risposta e non l’improvvisazione smaliziata di chi conosce il mestiere. Bros costringe insieme le parole ridotte a comandi con il linguaggio muto delle immagini e con le parole emblematiche dei motti. Sul palcoscenico si formano situazioni insolite e paradigmatiche. In esse si specchia il doppio e triplo-fondo dell’apparenza; il versante tenebroso della logica; l’inconsistenza delle certezze… Le immagini mentali prendono il sopravvento nello spazio in totale sincretismo, per approdare a un nuovo effettivo linguaggio: enigmatico, arcano, formato da figure che rimandano sempre a qualcos’altro, alla stregua di geroglifici. L’attore è spettatore egli stesso di quanto viene facendo. Il nodo tra attore e spettatore si stringe così fino a soffocare ogni distinzione. La recita coincide con la vita che accade in quel esatto momento. La parte non è più da preparare, solo da verificare. Nessuna improvvisazione, bensì il baratro di un presente assoluto”.

 


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