È stata celebrata al Palazzo del Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la Giornata Internazionale della Donna.
La cerimonia, aperta dalla proiezione di un video di Rai Storia dal titolo “Donne e libertà”, è stata condotta da Elena Radonicich.
Sono intervenute la giornalista Maria Latella e Maria Elisabetta Alberti Casellati, Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa.
Hanno portato le loro testimonianza Pegah Tashakkori, attivista iraniana e Frozan Nawabi, giurista afghana.
Elena Radonicich ha letto brani tratti da “Figlie dell’Iran” dell’attivista Reza Olia, “Lettere alle mie figlie” di Fawzia Koofi e “Il vestito azzurro” di Antonella Napoli, giornalista e scrittrice, direttore responsabile della rivista Focus on Africa e membro dell’ufficio di Presidenza di Articolo 21.
Nel corso della cerimonia la cantautrice Eleonora Bordonaro, accompagnata da Puccio Castrogiovanni e Marco Corbino, ha eseguito i brani musicali “Li Fomni” (Le donne), “Sprajammu di la Luna” (Siamo sbarcati dalla Luna), e “ Moviti ferma” (Resta ferma).
La celebrazione si è conclusa con l’intervento del Presidente Sergio Mattarella.
Erano presenti il Presidente del Senato della Repubblica, Ignazio La Russa, il Presidente della Camera dei Deputati, Lorenzo Fontana, il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il Presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra, e rappresentanti del Governo e del Parlamento.
Al femminile, come di consueto, la Guardia d’Onore del Palazzo del Quirinale.
IL TESTO TRATTO DA “IL VESTITO AZZURRO” DI ANTONELLA NAPOLI
«Mi ero allontanata dal mio villaggio, ma non tantissimo. Non più di un paio di chilometri. Ero andata fuori per raccogliere legna. Ero sola. Sono arrivati all’improvviso, mi hanno circondata. Erano in cinque» sussurra timorosa che altri, oltre me, potessero sentirla.
Hiba, che non ha neanche un rifugio tutto suo per proteggere se stessa e il bimbo di pochi mesi nato dalla violenza subìta, è tra le voci raccolte tra le donne vittime di strupro utilizzato come arma di guerra quella più esplicativa delle conseguenze che subiscono le vittime di stupro.
«Non ho mai saputo le vere ragioni della guerra tra i movimenti ribelli del Darfur e il governo di Khartoum, ma ho scoperto sulla mia pelle quanto possa essere crudele la sete di vendetta tra fazioni che spinge a violentare le donne come atto di supremazia ».
Il suo dramma è iniziato quando le milizie sono arrivate nella sua regione portando distruzione e morte. Nel suo villaggio erano state uccise trenta persone. Gli uomini adulti della sua famiglia non avevano subìto iner- mi l’invasione dei predoni arabi arrivati dal Nord. Tutti loro, tra cui suo padre e suo zio, erano stati massacrati a colpi di machete.
Lei, la madre e i fratelli minori erano riusciti a fuggire e avevano trovato accoglienza in uno dei campi del Darfur occidentale. Hiba, dopo tanto terrore, credeva di essere al sicuro. Aveva trovato la forza, lei che era la più grande, di prendersi cura della propria famiglia.
Per guadagnare qualche pound da mettere da parte per la dote, aveva cominciato a raccogliere la legna fuori dall’accampamento. Nonostante la fatica, e la vita di soffe- renze e di rinunce, era felice. Sperava di essere ripagata, un giorno, dall’amore di un uomo forte e onesto che l’avrebbe presa in moglie, dandole una vera casa. Ma le sue speran- ze erano state infrante da cinque miliziani armati di fucile che l’avevano sorpresa da sola, con il fascio di legna tra le braccia. L’avevano trascinata a terra, strappandole i vestiti di dosso e schiacciandole il viso nella sabbia. L’avevano picchiata e, a turno, l’avevano stuprata brutalmente. Più volte. Poi l’avevano abbandonata lì, sanguinante, convinti che non potesse sopravvivere. E invece Hiba, con la forza della disperazione, era riuscita a tirarsi su e a incamminarsi verso il campo.
Arrivata a Kalma, umiliata e stremata, era stata soccor- sa dai volontari di Medici Senza Frontiere. I fratelli, nono- stante tutto quello che la sorella aveva fatto per loro, non erano andati a trovarla e avevano impedito alla madre di farla tornare sotto lo stesso tetto.
«Mi hanno lasciata sola. Non mi hanno più voluta» mi ha raccontato con voce spezzata, tirando su il capo, solo in quell’istante, e puntando i suoi occhi nei miei.
Uno sguardo che mi ha tolto il fiato.
Le ferite che le avevano inflitto i suoi carnefici con il tempo erano guarite, pur lasciandole cicatrici su tutto il corpo. Ma quelle psicologiche, le più profonde, quelle che ogni giorno le ricordavano la violenza subìta, erano marchiate a fuoco dentro di lei. E facevano tanto male. Lo stupro subìto non era stato considerato una violenza, ma una colpa e un disonore. Come il figlio che aveva dato alla luce.
Nonostante le ragazze stuprate siano ormai migliaia, sono pochi i casi in cui le figlie e le mogli vittime di questi abusi vengono accolte con benevolenza dalla comunità. Hiba aveva sperimentato sulla sua pelle quanto possa far male l’esclusione. Ma dopo i primi attimi di sconforto che l’avevano spinta a tentare il suicidio, col passare del tempo aveva iniziato a credere che un futuro migliore fosse possi- bile. Aveva cercato di superare le sue angosce per ricomin- ciare a vivere serenamente.
Poi, un giorno, erano arrivate nel campo altre vittime di stupri. Erano molto giovani, quasi bambine. Avevano raccontato che alcuni janjaweed avevano fatto irruzione a scuola. Nessuna era riuscita a scappare. Avevano subìto la violenza senza poter reagire.
Hiba non aveva retto, le era ripiombato addosso tutto il terrore dei momenti terribili di sei mesi prima. Aveva quindi deciso di allontanarsi da quel luogo, abbandonare Kalma, che con i suoi 95mila abitanti era il più grande campo dell’area. Voleva lasciarsi alle spalle quella striscia di terra piatta e sabbiosa, infossata nell’alveo prosciugato di un fiume, ai margini dei binari della ferrovia che collega la città con il resto del Sudan. Un ricettacolo di disperati, povertà e sofferenza umana che si estendeva per chilometri. Dure, al limite della sopravvivenza, le condi- zioni di vita. Ripari di fango e paglia e teloni di plastica che non proteggevano dal vento costante e dalla polvere. Le ore del giorno calde, le notti fredde. Intere famiglie costrette a dormire con una sola coperta, sopra le stuoie stese sulla sabbia.
Non c’era nulla che la trattenesse in quel luogo angusto e squallido. Neanche la sua famiglia, che le aveva voltato le spalle. Soprattutto questo aveva spinto Hiba a partire insieme al gruppo di donne che aveva deciso di andare verso sud, a Nyala. Nel cuore, l’illusione che lì la situa- zione sarebbe stata migliore, anche se il terrore di nuove violenze restava costante.
Quel viaggio l’aveva premiata. A Nyala aveva ritrovato la forza di sperare. Nascondendo la violenza subìta e rac- contando di essere vedova, si era riappropriata della pos- sibilità di trovare un giorno un uomo che si innamorasse di lei e la sposasse.
«Ho paura, temo per me e mio figlio, per questo non ho detto nulla arrivando qui. Ma a te ho voluto raccontarlo perché il mondo deve sapere. Voglio che chi governa il vostro e altri Paesi potenti non permetta che succeda ad altre ragazze quello che è successo a me» mi ha confessato, consegnandomi quell’appello doloroso e inaspettato.
Prima di andare via, ho sentito il bisogno di chiederle cosa potessi fare per lei. Se avesse un desiderio.
«Un vestito azzurro nuovo (l’azzurro è il colore simbo- lo della purezza in Darfur) e un uomo accanto che possa accudirmi e impedire che qualcuno possa ancora farmi del male. E insieme crescere il mio bambino.»
La sua risposta mi ha spezzato il cuore.
Le ultime parole di Hiba mi hanno fatto capire quanta speranza e coraggio alberghino, nonostante tutto, in quella ragazza. Non le rimane altro. Rivelare il proprio dramma è stato un modo per allontanare da sé il dolore e la rabbia per gli orrori patiti, lasciandoli portare via, lontano, da chi li aveva raccolti.
Alla fine di quell’incontro, ho maturato una deci- sione: appena tornata a Khartoum andrò al mercato di Omdurman per comprare un thobe azzurro, per poi affi- darlo a Suliman per farlo arrivare in Darfur.
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