Come la grandine, il tema delle intercettazioni telefoniche e loro divulgazione ritorna: si gonfia e magari si sgonfia. Al di là, però, del suo contenuto manifesto, la vicenda ha un alto valore simbolico. Il tema fa parte, ormai, di un conflitto di lunga durata tra il potere politico e i contrafforti che dovrebbero arginarne la deriva autoritaria: magistratura e informazione. Ciò non significa, ovviamente, che il male e il bene si possano dividere con una riga netta e univoca. Tuttavia, è necessario cogliere la profondità di una tendenza che torna pesantemente in scena. Sembrava, tra l’altro, che la questione si fosse più o meno chiusa con un compromesso, quello previsto dalla recente riforma dell’ex ministro Orlando (d.lgs. n.216 del 2017) tesa a separare il grano dall’oglio, vale a dire le intercettazioni di interesse penale da quelle non rilevanti ai fini delle indagini. Ora, la destra al governo, pur nei suoi contorcimenti e nelle differenti gradazioni coercitive ma con l’operoso sostegno del cosiddetto Terzo Polo, ha riaperto l’argomento attraverso la fonesi reiterata del ministro Nordio: loquace al di là di ogni ragionevole dubbio. Il titolare del delicato dicastero intende chiudere le fonti delle notizie spesso fondamentali per capire, conoscere, criticare. Senza tale strumento, ferme restando la correttezza e la misura nella divulgazione, sapremmo ancora di meno sui grandi segreti di stato o su tante storie inquietanti che hanno coinvolto settori potenti adusi ad utilizzare la segretezza per coprire i propri misfatti. L’elenco è lungo e – da ultimo – va sottolineato che la stessa cattura del super latitante di Matteo Messina Denaro non sarebbe avvenuta senza un accurato lavorio di indagini agevolato anche dalle intercettazioni. Bene hanno fatto la federazione nazionale della stampa, l’ordine dei giornalisti e l’associazione Articolo21 a protestare contro l’iniquo tentativo di imbavagliare il diritto di informare e di essere informati. Non va sottovalutato ciò che sta accadendo, come il tuono che anticipa la tempesta. C’è un filo nero che congiunge l’assalto alla diligenza costituzionale in Italia secondo l’antico rito berlusconiano con un clima generale. Giornaliste e giornalisti (circa 400, ma chissà quanti altri non noti) incarcerati; inviati sui luoghi di guerra embedded; numerosi cronisti persino uccisi: la punta dell’iceberg di una torsione grave nella bilancia dei poteri. Il martirio deciso per il fondatore di WikiLeaks Assange suona, in tale contesto, come un avvertimento per tutte e tutti: guai a mettere il naso negli arcani indicibili delle cancellerie o nei misfatti delle guerre. Come ha denunciato lo scorso venerdì a Washington il Belmarsh Tribunal, il giornalista australiano proprio in questi giorni rischia di essere estradato negli Stati Uniti dalle corti londinesi. Quanto agli aspetti giurisprudenziali, andrebbe ricordato, vi è una costante linea assunta dalla corte europea dei diritti umani. Quando si ha una notizia di rilievo pubblico, la deontologia professionale impone di pubblicarla. Non il contrario. Cittadine e cittadini devono sapere per deliberare, com’è noto. La trasparenza è un bene indispensabile. È vero che le posizioni del ministero, peraltro espresse in numerose interviste e in diverse audizioni presso le commissioni parlamentari, sembrano trovare qualche freno nello stesso esecutivo, a partire dalla presidente Meloni. Ma siamo di fronte ad un’antica tecnica, quella di fare un passo avanti con annesso apparente ripensamento. Intanto, si costringe chi si oppone a seguire l’agenda imposta al dibattito, costruendo le premesse per compromessi arretrati. Tuttavia, a parte il nucleo visibile della faccenda, c’è da aggiungere una considerazione allarmante. Appare ora solo uno spicchio della vasta panoramica delle intrusioni nella vita di una persona. Il capitalismo della sorveglianza va ben oltre. Siamo costantemente connessi, osservati, profilati. Di simile ingombrante verità chi si cura? La recente agenzia per per la cybersicurezza nazionale varata nel giugno del 2021 se ne occupa?