La visita di papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo (e da venerdì anche in Sud Sudan) non si sta certo rivelando una cortesia verso gli ospiti, anzi. Se il presidente Félix Tshisekedi avesse mai pensato che il viaggio del pontefice potesse tornargli utile per consolidare un potere sempre più fragile ed eroso da corruzione e violenza, si è dovuto ricredere incassando sonori “ceffoni” di richiamo alle sue responsabilità di fronte alla folla. “Ciascun congolese si senta chiamato a fare la propria parte” ha tuonato Francesco davanti al milione di fedeli accorsi ad accoglierlo a Kinshasa.
“La condanna della violenza armata, massacri, stupri, distruzione e occupazione dei villaggi, il saccheggio di campi e di bestiame” non riguarda infatti soltanto le centinaia di gruppi e bande armate che seminano il terrore nell’est del paese ma anche l’esercito governativo, di cui alcuni settori lavorano in realtà a tempo pieno in combutta con i trafficanti delle enormi ricchezze del sottosuolo, garantendo “l’ordine” a scapito della sicurezza della popolazione e dell’interesse nazionale. Troppo facile per Tshisekedi sparare nel mucchio accusando dei crimini i “gruppi di terroristi al servizio di potenze straniere”, ovvero il Ruanda. Dal presidente congolese tra l’altro l’Italia attende ancora risposte sul triplice omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo uccisi due anni fa nei pressi di Goma. Nonostante solenni promesse fatte al nostro presidente Mattarella di far luce sull’eccidio, le indagini sono rimaste saldamente ancorate nel porto delle nebbie con pirotecnici (quanto pittoreschi) tentativi mediatici di additare uno spaurito (e muto) gruppo di prigionieri ammanettati quali autori del massacro, senza ovviamente fornire prove. La collaborazione delle autorità locali con i nostri magistrati e 007 è rimasta una misera lettera morta. Segnale inoppugnabile di mancanza totale di controllo del territorio e di indicibili collusioni con “nemico”.
Papa Francesco con questo viaggio non rinuncia ad illuminare i conflitti dimenticati del continente africano. Lo aveva già fatto nel novembre del 2015 quando si recò nella Repubblica Centrafricana contravvenendo a tutti gli inviti delle intelligence internazionali che lo sconsigliarono di visitare un paese squassato da una feroce guerra civile. Anzi Francesco volle conferire a quella difficile missione un carattere di grande solennità aprendo ufficialmente la porta santa della cattedrale di Bangui dando così il via al Giubileo.
Gesti forti per richiamare l’attenzione su quella impotenza (a fasi alterne) della comunità internazionale denunciata dal cardinale congolese Fridolin Ambongo. Una comunità pronta a mobilitarsi per intervenire in Ucraina ma incapace di prendere atto del fallimento della Monusco, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite più lunga (oltre 30 anni), più costosa, più numerosa dispiegata sul territorio con il compito di proteggere i civili, e sempre più sotto accusa per corruzione e violenze su donne e bambini. Le bande criminali ed i gruppi armati continuano indisturbati a schiavizzare le popolazioni locali e controllare il traffico clandestino di oro, diamanti, cobalto, nichel e soprattutto coltan (di cui la regione orientale del Kivu fornisce l’80% della produzione mondiale) essenziale per la produzione delle memorie di computer, cellulari, tablet prodotti dal mondo ricco.
Papa Francesco affronterà una situazione altrettanto complessa e dolorosa nella visita in Sud Sudan che comincerà il 3 febbraio. Il più giovane stato africano e del mondo ha dovuto fare i conti fin dalla sua nascita nel 2011 con il sanguinoso scontro tra i due leader che si contendono il potere. Il presidente Salva Kiir ed il suo ex vice Riek Machar tengono in scacco la nazione con continui massacri di civili nella regione dell’Alto Nilo, nel Kordofan occidentale, negli stati federali di Jonglei e Unity. Eccidi che sempre più stanno prendendo una inarrestabile deriva etnica. Le decine di accordi di pace sottoscritti sono risultati scritti sull’acqua e cementati sulla sabbia: dissolti addirittura dopo poche ore dalla firma. Anche in questo caso sul tavolo ci sono le ricchezze del sottosuolo ed il controllo degli enormi aiuti internazionali piovuti sul Sud Sudan dopo la sua nascita. La corruzione della classe politica regna sovrana, anche in questo caso, e nessuno è disposto a rinunciarvi anche tra i funzionari pubblici.
Migliaia di civili sono fuggiti rifugiandosi nei paesi confinanti, migliaia di sfollati vivono stabilmente nei campi profughi. Tutti sperano che la visita di Francesco riesca a convincere i due leaders a rispettare gli impegni più volte sottoscritti ed accuratamente evasi, tra cui la creazione di un esercito nazionale unificato, in grado di frenare gli scontri etnici facendo confluire tutti i gruppi armati in una unica struttura. Le premesse non sono delle migliori perché le elezioni previste per questo mese di febbraio sono già slittate alla fine del 2024 con l’obiettivo di riconfermare il presidente uscente Salva Kiir, in carica dal 2011.
Papa Francesco questa volta forse non si limiterà a quel potente gesto (scolpito nelle nostre menti) dell’11 aprile 2019 in Vaticano quando baciò i piedi del cattolico Salva Kiir e del cristiano Riek Machar per invocare la fine della guerra civile.
In quasi 4 anni da allora la situazione è peggiorata per la gente comune. Anche per i due eterni rivali è arrivato il momento di assumersi responsabilità personali fino ad ora ignorate.