Nicragua, un orrore a noi vicino

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In un mondo sulla soglia, anzi già dentro inedite forme di dominio globale sugli esseri umani (“il capitalismo della sorveglianza” digitale: Shoshana Zuboff), deflagra dal Centroamerica un nuovo scandalo della primitiva dittatura di Daniel Ortega e Signora (Rosario Murillo, sua Vicepresidente) in Nicaragua. E ci inorridisce; apparendo tuttavia lontana. Richiamandoci al tempo stesso alla trionfante avanzata a tutto campo dell’A.I. (Intelligenza Artificiale), che va assimilando le differenze. Comprese quelle in passato determinate dalle grandi distanze fisiche. Nel bene e nel male, approssima il remoto fino a trasformarlo in attiguo. Così che pur molto distanti tra loro nella geografia e nella storia, diversi sistemi di condizionamento sociale -dalla limitazione/sostituzione di alcune pratiche di libertà all’oppressione più o meno diretta, palpabile e totale-, possono non solo convivere bensì anche integrarsi. Con il risultato di una maggiore, reciproca funzionalità. In Nicaragua gli uffici del suo rozzo governo sono zeppi di computer e le carceri di oppositori.

I negoziati riservati di Ortega con il governo degli Stati Uniti per la liberazione-espulsione dei 222 detenuti politici rilasciati d’un tratto giovedi scorso, si sono svolti soprattutto attraverso i canali telematici. Ovvio, stante i tempi tecnologici che viviamo; ma anche significativo. Vale ricordarlo. L’odierno Nicaragua conferma che un certo medioevo può coabitare senza eccessivi problemi con l’iper-modernità tecnologica, terza variante epocale nella contabilità scientifica della Zuboff. Contestualmente alla liberazione-espulsione che li ha condotti a Washington, ai 222 cittadini nicaraguensi è stata sottratta la nazionalità, in aperta violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Parigi, 1948). Un gesto simbolicamente tra i più dispotici, un oltraggio largamente praticato dalle dittature militari nell’America Latina degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. Concepito nell’idea che la patria non è l’effetto sul territorio di una comunione di principi, bensì una proprietà di parte: ne è padrona chi comanda. Esserne cittadini non è un diritto, ma un atto di sottomissione a quella parte, di cui si diventa quindi sudditi.

 

Con tutti i distinguo dovuti, questa coincidenza di crisi tra locale e globale assume caratteri  scellerati nell’odierna Nicaragua. Intanto tra quanti sono rimasti. Di costoro, in molti sensi esemplare è il caso del vescovo cattolico Rolando Alvarez, 56, che rispecchia tutta la vigliaccheria del regime. E del suo tiranno in primis: Daniel Ortega in persona l’ha chiamato pubblicamente “superbo”, perché ha rifiutato di accettare l’esilio forzato. Al fine di allontanarne il prestigio di cui gode tra i suoi fedeli, il dittatore lo aveva incluso nella lista dei deportati. Ma il vescovo Alvarez ha preferito restare a testimoniare le sue infamie, cedendo il posto a un altro detenuto. Il giorno seguente, a rivelare come funziona la giustizia nel paese, un tribunale ha condannato il prelato -già agli arresti domiciliari e sotto processo- a 26 anni di carcere. E’ stato immediatamente trasferito nella prigione La Modelo, (il nome dice già che si tratta di un penitenziario speciale); “tradimento, diffusione di notizie false e tendenziose…” e altri pretesti ancora, i presunti reati che gli ha attribuito l’accusa. Insomma: qualsiasi opposizione viene considerata tradimento.

 

I 220 sbarcati a Washington già si domandano pubblicamente come potranno provvedere alla loro sussistenza, visto che la generosa ospitalità degli Stati Uniti è provvisoria, al momento non comprende l’autorizzazione a stabilirvisi e cercare un lavoro. Alcuni sono notissimi, da qualche parte, in qualche modo, troveranno asilo. Dora Tellez, 66, era nel gruppo armato che nell’agosto 1978 penetrò nel Palacio Nacional, liberando le decine di prigionieri dalle celle di tortura che Somoza aveva organizzato negli scantinati. Poi ministra della Sanità con la rivoluzione sandinista. Con l’ex vicepresidente e scrittore Sergio Ramirez nella fondazione del Movimiento Renovador Sandinista (1995), contro la conversione reazionaria e gaglioffa di Daniel Ortega. I più giovani Lesther Alemàn e Max Jerez hanno vincoli con i movimenti studenteschi del continente. I Chamorro, famiglia più che benestante, hanno conoscenze internazionali: Cristiana, 68, è la figlia della scomparsa presidente del Nicaragua Violeta (1990-97) e dell’editore Pedro Chamorro; il fratello Carlos, 67, è un giornalista e saggista indipendente. Per i meno conosciuti non sarà facile.

 

Daniel Ortega, 77, li ha conosciuti tutti personalmente. Con i più anziani ha condiviso passaggi essenziali della sua vita. Nasce come leader nel furore, nell’abnegazione, nelle fortune e nei rovesci della battaglia di libertà che il Nicaragua affronta a sangue e fuoco fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, per cacciare la dittatura dei Somoza. Alla sua formazione e affermazione individuale concorrono i sacrifici dell’intera famiglia, genitori e fratelli, tutti eroici combattenti (Carlos, caduto in battaglia nel 1976, è il fondatore del Movimiento Sandinista de Liberaciòn Nacional, insieme a Tomàs Borge e Silvia Mayorga, 1962). Ma la spregiudicata ostilità dei governi di Ronald Reagan e George Bush (basti ricordare lo scandalo delle armi vendute clandestinamente all’Iran per finanziare i Contras nascosti in Honduras), logora il suo già scarso spirito democratico. Dalla categoria weberiana di capo carismatico, cede prima a un nazionalismo sovietizzante, che scivola negli anni in un sistema di potere personalistico, carico di demagogia populista e non privo di tratti vendicativi: poca giustizia sociale e niente democrazia.


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