Maurizio Costanzo se n’è andato a vent’anni esatti dall’amico Alberto Sordi, che nel suo programma aveva dato spesso il meglio di sé. Se n’è andato all’improvviso, uscendo di scena da par suo, senza che calasse il sipario sulla sua vita ma anzi conservando fino all’ultimo una vivacità intellettuale senza pari. Se n’è andato da consumato attore di palcoscenico, prima della decadenza, al momento giusto, con i riflettori ancora puntati su di lui, con l’attenzione collettiva rivolta alle sue intuizioni, con tanti ricordi e altrettante speranze, con il suo carico di innovazione, follia, errori e trovate geniali che ne hanno caratterizzato l’esistenza. Aveva certamente anche dei lati controversi, a cominciare dall’iscrizione alla loggia massonica P2, di cui non ha mai finito di pentirsi, ma quando pensiamo a Costanzo ci vengono in mente soprattutto i molteplici aspetti positivi della sua personalità poliedrica e della sua sterminata produzione artistica. Basti pensare che è stato il paroliere di “Se telefonando”, che ha contribuito a inventare il personaggio di Fracchia, che ha scritto la sceneggiatura di “Una giornata particolare” di Ettore Scola; basti pensare ai suoi programmi controcorrente, in cui diventavano protagonisti personaggi talvolta improbabili e talvolta straordinari, in cui c’era spazio per tutti, in cui si veniva letteralmente costruiti ma si durava solo se, al di là dellartificio, batteva un cuore e un’anima; e basti pensare, infine, alla longevità delle sue trasmissioni e al suo saper resistere a tutto, compresa la ferocia della mafia che il 14 maggio del ’93 compì un attentato ai suoi danni in via Ruggero Fauro, due settimane prima della tragedia di via dei Georgofili a Firenze.
Costanzo ha vissuto intensamente, attraversato numerose stagioni da primadonna, interpretato gli umori del pubblico, dato vita a un genere televisivo che prima di lui non esisteva e dopo di lui nessuno ha saputo riproporre con altrettanta maestria ed è riuscito a districarsi fra il berlusconismo arrembante, la crisi della sinistra, il collasso della televisione, la scomparsa della politica, il dramma di istituzioni spolpate dall’interno e l’ascesa di un mondo dello spettacolo che non aveva nulla a che spartire con il garbo e la serietà degli interpreti che più gli erano cari.
Ha avuto anche un suo comprensibile declino, tanto che alcune delle sue ultime esibizioni lasciavano alquanto a desiderare, specie se si considera che sul palco del Teatro Parioli era passata la storia e che lui era stato il principale artefice di una rivoluzione mediatica destinata a durare nel tempo.
Non a caso, Costanzo era diventato il senatore a vita del piccolo schermo, il vero proprietario di Mediaset, il demiurgo di una certa idea di televisione, il promotore di stili e tendenze, capace di affrontare anche i temi più scabrosi con innata maestria. E poi l’unione con Maria De Filippi, la regina consorte dell’uomo che possedeva sostanzialmente una tivù, abile, a sua volta, a egemonizzare il palinsesto, modificando per sempre il nostro modo di essere. Se è avvenuto, ed è avvenuto, possiamo tracciare un bilancio: c’è del buono, perché dai talent della De Filippi e dal teatro di Costanzo sono emersi attori e cantanti, al maschile e al femminile, di altissimo livello, e c’è anche del pessimo, perché da quegli stessi spazi sono venute fuori talora delle macchiette imbarazzanti e dei soggetti che ci saremmo volentieri risparmiati.
Se il berlusconismo è stato ed è tuttora un punto di riferimento culturale nel nostro Paese, per quanto negativo, lo si deve anche a loro, all’intreccio perverso fra politica e televisione e a ciò che questo dominio ha rappresentato nel corso di una fase storica che tende a concludersi ma, al tempo stesso, a generare un vuoto enorme dietro di sé, in questo falò delle vanità che brucia ogni aspirazione e ogni possibile novità.
Allo stesso modo, con commozione e riconoscenza, ricordiamo Alberto Sordi, scomparso vent’anni fa dopo aver incarnato meglio di chiunque altro l’italiano medio, i suoi vizi e le sue virtù. Ecco, se c’è un filo rosso che congiunge Costanzo a Sordi è proprio la loro capacità di porsi al servizio del pubblico, comprendendone i gusti ancor prima che questi si rivelassero e forgiandone le abitudini. Sordi è stato il romano cinico ma, in fondo, bonario del dopoguerra, il guascone filo-americano e un po’ ridicolo degli anni Cinquanta, il dissacratore per antonomasia, colui che ha saputo trattare argomenti anche molto pesanti e complessi con l’ironia necessaria per porgerli alla collettività e il disincantato interprete di capolavori come “La Grande guerra”, “Tutti a casa”, “Finché c’è guerra c’è speranza” e “Polvere di stelle”.
Era presente in loro quel tratto profondamente umano, quasi ingenuo, tipico di chi conosce la società nel suo insieme ma, in fondo all’anima, è rimasto un eterno bambino, quello stupore che salva nei momenti delicati, quella dolcezza che rende possibile anche l’impossibile e quell’incanto che li rendeva due grandi attori, perché anche Costanzo in pratica lo è stato, in grado di non sbagliare mai i tempi e le battute, di tenere la scena fino all’ultimo e di azzeccare anche l’uscita, quando tutto ciò che doveva essere detto era stato detto e alla platea non rimaneva che l’applauso e il rimpianto.
Non so perché, ma sono sicuro che lassù, nel rivedersi, i due si siano dati reciprocamente una pacca sulla spalla e poi, con la scanzonata levità che era propria di entrambi, si siano guardati negli occhi e si siano domandati: “Ma ‘ndo vai?”.
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