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“Libero” tra camici e conflitti di interesse

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Siamo abituati alla normalità del male, purtroppo. Tuttavia, qualche sgomento ha suscitato la prima pagina del quotidiano Libero di lunedì scorso. Il titolo richiamato con grande evidenza «Basta Sanità colonizzata dalla sinistra» apposto all’intervista all’infettivologo Matteo Bassetti (assiduo frequentatore dei talk televisivi) è di raro cattivo gusto.

Senza nulla togliere – guai- alla sacrale libertà di espressione, siamo di fronte ad un intrico di obbrobri.

Innanzitutto, si pone un problema di indebita intrusione degli affari della proprietà in una delle testate di riferimento. L’editore di fatto, per interposta fondazione, è l’Angelucci parlamentare (prima Forza Italia, ora Lega) della famiglia cui stanno in capo, oltre a quotidiani come Il Tempo, Il Giornale e il citato Libero, cliniche private in diverse parti d’Italia. Si tratta di un discreto impero nel campo sanitario, sotto la sigla della società lussemburghese Three detentrice del gruppo San Raffaele e della holding Tosinvest. E Tosinvest Editoria si chiama la connessa struttura che agisce nel mondo dell’informazione. Insomma, un preclaro caso di interessi in conflitto.

La vicenda assume, poi, connotati ancora più gravi se si pensa che il tema della salute è caldissimo nelle campagne elettorali in corso in Lombardia e nel Lazio. È stato un intervento a gamba tesa, tesissima. Stiamo parlando di una scorrettezza particolarmente odiosa, perché un primo attore del chiacchierato comparto entra direttamente nell’agone poco prima del voto, facendo lo spirito padronale.

Il fine dicitore potrebbe obiettare che l’attuale disciplina in vigore, siglata dal defunto ex ministro Frattini nel 2004, è a maglie molto larghe e non impedisce una simile relazione tra giornali ed affari. Siamo in regime di proprietà privata, notoriamente. Ma ciò non significa che basti far valere l’ancoraggio al diritto privato, quando si è beneficiari di un abbondante finanziamento pubblico grazie al Fondo dell’editoria e dell’innovazione.

Infine, un richiamo etico dovrebbe pur scattare. Questione per lo meno di stile, quindi. Lo stile, però, come il coraggio per don Abbondio, uno ce l’ha o non ce l’ha. Non se lo dà.

Recentemente, vi è stata sulla materia una puntuta disamina da parte del Corriere della Sera (17 gennaio 2023), assai ricca di dati. Certamente, anche il patron del gruppo Rcs Cairo non è innocente. In Italia, gli editori puri si contano con le dita della mano, ivi compreso il manifesto.

Qualcosa è doveroso fare, perché è triste assistere alla parabola discendente della carta stampata sia sotto il profilo imprenditoriale sia nelle vendite.

Siamo alla vigilia del congresso nazionale della federazione nazionale della stampa italiana. Sarebbe di grande interesse una netta presa di posizione sindacale su un argomento ormai rimosso. Eppure, senza una vera indipendenza dei media non è possibile esercitare davvero la democrazia. Non si dica, come pretesto, che ormai siamo nell’era dell’intelligenza artificiale dove il resto non conta o è vecchio. Dobbiamo sapere che senza una regolazione adeguata che chiuda i conti aperti dall’età analogica, saremo maggiormente esposti agli assalti predatori dell’ingordigia digitale e dei suoi oligarchi indifferenti alla legge.

Anni fa la Fnsi discusse dell’urgenza di varare uno «Statuto dell’impresa giornalistica», immaginato per preservare l’autonomia delle redazioni, pur imprigionate in apparati densi di intrecci di mercato.

Ora, quell’ipotesi torna di attualità e costituisce un criterio generale. L’indipendenza di chi fa informazione non va mai ingabbiata da logiche estranee alla correttezza e alla buona deontologia professionale.

Magari, a fronte dell’obiettivo disagio che crea un clima fazioso, qualche sveglia suonerà anche nel parlamento.

PS: siamo prossimi al voto amministrativo. La commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai non è stata istituita e, quindi, non ha emanato l’apposito regolamento sulla par condicio. Invece di dare vita all’istituto bicamerale, si è pensato bene di aumentarne il numero da 40 a 42. Alla faccia del taglio dei parlamentari. 


(Nella foto una edizione d’archivio)


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