Da qualche tempo, meglio da decenni, la destra-destra italiana guarda la Rai dal buco della serratura. Con un misto di desiderio politico e di voyeurismo verso zone tradizionalmente lontane dagli spiriti reazionari. La Rai è stata a lungo governata dal vecchio esprit democristiano. Uno stile di comando, duro e attento a non annientare i pensieri laterali. Certamente, la lottizzazione è apparsa la sintassi dell’azienda e le sinistre non hanno avuto la forza di rompere il gioco. Ancorché da sinistra siano venute le cose migliori, dalla seconda rete televisiva diretta da Massimo Fichera alla terza di Angelo Guglielmi. Il servizio pubblico è stato centro e motore dell’industria culturale italiana, nel bene e nel male. Senza offesa, ma le estetiche destrorse hanno avuto il tono e l’approccio berlusconiani, non il fuoco della fiamma. Ora, a quanto si legge in un’informazione in parte sgradevolmente corriva, è iniziata la marcia su viale Mazzini, la storica sede dell’ex monopolio. Se ne parla da settimane, dopo l’ascesa elettorale di Fratelli d’Italia, a maggior ragione dopo i risultati delle consultazioni regionali. Chissà, forse questa volta è vero. Tanto per cambiare, le forze progressiste scontano i propri peccati: una vera riforma, che sottraesse al governo e alle maggioranze transeunti l’ipoteca sul comando mediale non c’è stata. Anzi, nel dicembre del 2015 l’esecutivo presieduto da Matteo Renzi fece di peggio. Da allora, palazzo Chigi designa l’amministratore delegato con pieni poteri. Infatti, è proprio Carlo Fuortes nel mirino, al punto che sembrava si vorrebbe imporre una leggina ad personam per un ex consigliere di provata fede, costretto -se mai- a stare in carica troppo poco per la mannaia del limite dei due mandati. Del resto, il tema del conflitto di interessi non suscita più emozioni in un sistema politico assuefatto e stanco. Viene spontanea una domanda: perché tutto questo trambusto, visto che la Rai è già piegata ai nuovi patron? Basti leggere le tabelle pubblicate dall’Autorita’ per le garanzie nelle comunicazioni sulle presenze dei partiti nei telegiornali. Giorgia Meloni è la star incontrastata, un pochetto di meno solo nel Tg3. In verità, si tratta dell’entrata nella stanza dei bottoni, agognata e intravista ancora da troppi metri di distanza. E vai con promozioni, rubriche ad hoc, nuovi assunti orientati, programmi nostalgici. Siamo di fronte, infatti, ad un tentativo di restaurazione, non ad una linea di stampo conservatore. Dietro le quinte ha preparato il terreno dell’invasione il ministro Giorgetti, con l’assurda idea di togliere la riscossione del canone dalla bolletta elettrica. Meno pubblicità e meno canone sono i piatti forti del ricatto e della pressione. Tra parentesi, l’Europa con la storia del canone non c’entra proprio nulla. La destra, però, ha deciso incautamente di passare dalla parete nord, utilizzando come grimaldello le polemiche sul festival di Sanremo. Se un bacio rubato da Rosa Chemical a Fedez, o la polemica del famoso rapper contro un sottosegretario ricordato per avere indossato la divisa nazista (accidenti, però) sono il casus belli, la marcia è destinata a fermarsi presto. È noto che la maggioranza delle persone, ivi compresi i votanti di FdI, sui costumi sessuali sono assai avanti e laicizzati. Altro che richiamo beghino degno degli anni cinquanta del secolo scorso. Se le forze di governo volessero, invece, contribuire ad un dibattito pubblico serio sui destini del servizio pubblico nell’età digitale e nell’universo dell’intelligenza artificiale, allora la musica cambierebbe. E sarebbe difficile sottrarsi ad un confronto doveroso. Sono state scritte, al riguardo, pagine interessanti dalla moderna mediologia e gruppi di esperti indipendenti potrebbero offrire soluzioni da portare al dibattito parlamentare. Ma, forse, stiamo sognando. Comunque, lotta dura.