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La democrazia in Brasile. Dalla foresta alla città

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La restaurazione democratica del presidente Ignacio Lula da Silva non è impaziente, ma pur rispettando le prerogative parlamentari (“un territorio ormai occupato da un’inedita e pericolosa maggioranza di partiti golpisti, reazionari, trafficanti…”, commenta la Folha di San Paolo, 29.01.23) e i tempi delle procedure giudiziarie, fa propria l’urgenza dei feriti. Poiché il tentato golpe dell’8 gennaio è fallito, lasciandosi dietro tragedie tuttavia in atto e vite appese a un filo. Oltre a gravi responsabilità e situazioni da chiarire nelle stesse istituzioni violate. Dunque procede su piani sovrapposti. Brasilia ha il suo metabolismo burocratico. Il capo dello stato vola allora ai territori estremi della selva di Roraima, ai confini settentrionali con Venezuela e Guiana. Non un posto di ordinaria emergenza. Lì, nei suoi 4 anni di governo, il predecessore Bolsonaro ha tagliato le spese sanitarie e lasciato morire migliaia di nativi, soprattutto donne e bambini, 572 i minori di 5 anni. “Un genocidio”, ha affermato Lula.

Questa periferia etnica è da 5mila anni la patria degli yanomami, una popolazione che oggi non sommerebbe più di 30mila individui (850/890mila la stima di tutti gli indios amazzonici a tutt’oggi sopravvissuti) sul totale nazionale di 198 milioni di brasiliani. Così che quello del presidente potrebbe apparire un intervento essenzialmente simbolico. E certamente lo è. Senza però perdere il carattere consustanziale con la sua visione politica generale, in cui il rispetto dei diritti essenziali della modernità viene concretamente e subito ripristinato per tutti i cittadini nessuno escluso, in quanto fondamentale al rilancio dello sviluppo. Nel quale la difesa del territorio, quindi dell’ambiente naturale si coniuga con quella della crescita economica e con la riaffermazione di una piena legalità costituzionale, definitivamente compromessa dalla scelta eversiva di Jair Bolsonaro (coinvolto o no che sia in prima persona nel fallito golpe, lo stabiliranno le indagini della magistratura penale).

Nel suo “Arrabalde: em busca da Amazonia”, il ricercatore Joao Moreira Salles fa ben comprendere che la foresta è una fonte originale d’intelligenza ecologica. E’ una biblioteca naturale. Si tratta d’imparare a leggerla sempre meglio apprendendo dagli indios. Intanto i lavori di divulgazione del documentarista evidenziano l’improrogabile urgenza di proteggerla dalle ricorrenti minacce di distruzione. L’Amazzonia è un sistema formato nei millenni dalla collaborazione tra umano e non-umano, dalla reciprocità tra natura e cultura. La mano indigena vi ha operato partendo dalla sua antica conoscenza dell’interazione tra clima, fauna e flora, selezionando le piante fertili e riducendo progressivamente quelle nocive. Lasciarla sfruttare indiscriminatamente, come ha fatto Bolsonaro (ma anche altri governi prima di lui, cominciando dalla dittatura militare 1964-1983), per obnubilazione culturale prima ancora che per inconfessabili interessi materiali, è come se bombardassimo le città per risolvere l’abusivismo edilizio,

La nuova sensibilità ecologica in Sudamerica sta diventando del resto linea-guida della politica anche in Cile, in Colombia, in Argentina (con minor enfasi, ma in anticipo sugli altri). Con un discorso che coinvolge l’Europa. A cominciare da quel trattato economico-commerciale sottoscritto nel 2019 tra Unione Europea e Mercosur a conclusione di vent’anni di negoziati, epperò rimasto fino a oggi lettera morta (e rischiando di spaccare il Mercosur per le opposte letture di Brasile e Argentina). Il presidente colombiano Gustavo Petro, uomo di sinistra -ad esempio-, richiama oggi gli accordi di Parigi sul clima per dichiarare la disponibilità del suo paese a limitare e in prospettiva cessare il ricorso agli idrocarburi. Per paradosso trovandosi a coincidere con quanto cinicamente mi disse 40 anni fa Antonio Delfim Netto, anima e corpo della politica economica della dittatura militare brasiliana: ”Se gli europei vogliono l’aria pulita dell’Amazzonia, che la paghino come fanno con la benzina…”. In quanto è ovvio che ideologie a parte, per rinunciare alle proprie risorse naturali i sudamericani si aspettano compensazioni.

Lula, da parte sua, fa sul serio. Ha fatto trasportare nei sanatori gli indios in condizioni di salute più gravi e montare ospedali militari da campo sul posto per gli altri. Già da qualche giorno è in corso l’evacuazione forzosa dei cercatori d’oro, che da decenni contaminano i fiumi della regione con il mercurio che usano per liberare dalle scorie il metallo prezioso. Sono gli ormai famosi garimpeiros e con loro tutti gli avventurieri che per lo più al servizio dei trafficanti di legnami pregiati e dei grandi allevatori clandestini di bovini in cerca di pascoli, abbattono migliaia di alberi l’anno, senza alcuna autorizzazione, né criterio. Stime approssimative parlano di 24/25mila persone, non necessariamente tutti malfattori (io stesso ne ho intervistati vari nei decenni passati, riuscendo anche a stabilire un dialogo sul senso della loro attività, per moltissimi vitale. E qui -certo- sorge il problema di razionalizzare le ricchezze delle foreste tropicali senza distruggerle). La Forza Aerea ha proibito tutti i voli privati, per impedire l’unica via possibile che li riforniva dell’indispensabile. Si tratta di rendere i nativi soggetti della loro storia e partecipi di quella del Brasile.

Livio Zanotti

 


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