Iran. Bambina aggredita perché il suo foulard non le copriva il capo. E il mio post oscurato su facebook

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È proprio vero quanto afferma nei suoi discorsi l’attivista iraniana per i diritti umani Mashi Alinejad. “Il velo è solo un simbolo della protesta, simboleggia l’oppressione ed è paragonabile al Muro di Berlino: se lo si abbatte, l’intero sistema crollerà”, sta gridando al mondo.

L’obbligo del velo è il pilastro più debole su cui si fonda la rigida applicazione delle leggi islamiche che costringono le donne alla segregazione e la polizia morale ha il compito di controllare l’abbigliamento delle persone e di arrestare soprattutto le donne che non rispettano il codice prescritto dalle leggi islamiche vigenti.

Il regime teocratico non può rinunciare all’applicazione rigida del suo codice che segrega le donne confinandole in uno spazio di minorità: inferiori agli uomini, dunque.

Non può sopportare che da sei mesi per le donne la questione dell’hijab non sia più all’ordine del giorno perché con questa rivoluzione le donne hanno di fatto già abolito l’obbligo di indossare il velo. Le autorità iraniane non riescono più a far rispettare l’odioso codice di abbigliamento. Ora le donne, quasi ovunque, soprattutto le più giovani, mostrano pubblicamente i loro capelli al vento e non intendono rispettare più alcun codice di abbigliamento islamico.

La cosiddetta polizia morale, tuttavia, continua a terrorizzare e a violentare le donne di qualsiasi età, a partire dalle bambine di 7 anni.

Sara Shirazi, una fanciulla di appena 9 anni, verso le ore 12 e 40 di venerdì 24 febbraio, tornava a casa tutta allegra e sorridente canticchiando, con il suo scialle poggiato sulle spalle, dopo essere uscita dalla scuola elementare Isfahan. Nel suo percorso verso casa ha incontrato il suo orco impersonato da una donna agente del regime, di nome Razieh Haftbaradaran, che l’ha rimproverata perché il suo foulard non le copriva il capo. Sara non comprendeva il motivo del rimprovero e si è ribellata a questa imposizione ed è stata picchiata duramente al volto e spinta a terra; cadendo ha battuto la testa sul marciapiede.

Alcuni testimoni hanno ripreso la brutale aggressione in un video, diventato virale sui social, in cui si vede la povera Sara seduta sul bordo del marciapiede con i vestiti insanguinati mentre, singhiozzando, cercava con le mani di arginare il sangue che le usciva copiosamente dal naso.

I passanti che l’avevano soccorsa e poi trasportata in ospedale hanno denunciato la donna che l’aveva brutalmente picchiata.

I genitori della bambina sono stati subito minacciati dalle forze volontarie paramilitari basij che hanno loro intimato di non diffondere la notizia dell’aggressione “altrimenti Sara avrebbe fatto la stessa fine di Mahsa Amini”.

L’autrice di tale efferatezza ha cercato di negare l’accaduto e ha inventato una storia di un presunto litigio tra coetanee.

Ma le numerose testimonianze hanno rivelato l’orribile realtà dell’accaduto. Razieh è stata arrestata e Sara portata in ospedale.

Dopo qualche ora, la donna è stata rilasciata e la famiglia minacciata.

Non importa quale sia la loro età, le donne in Iran sono tutte in pericolo, sono segregate come prigioniere nelle mani di un regime orrifico.

La signora, che in nome di un credo religioso violenta una bambina che poteva essere sua figlia, probabilmente non sarà incriminata perché le sue convinzioni coincidono con quelle della Guida Suprema Ali Khamenei che ha promesso tolleranza zero sull’obbligo dell’uso dell’hijad, secondo il codice di abbigliamento islamico reso ancora più rigido subito dopo l’arrivo al potere del presidente Raisi.

La pacifica ribellione delle giovani donne e degli uomini in Iran contro il regime islamico ha già determinato una profonda rivoluzione culturale che punta a rovesciare l’intero assetto politico-istituzionale della Repubblica islamica nata nel 1979. Al culmine di un lungo processo durato quarantaquattro anni, la società appare trasformata. La scintilla che ha innescato il cambiamento è stata l’uccisione della ventiduenne curda Mahsa Amini, per mano della polizia morale.

Per la prima volta, dal 16 settembre 2022, da Tehran, cuore culturale e politico del paese, all’estrema periferia, i giovani sono scesi in strada contemporaneamente e con lo stesso slogan, “Donna Vita, Libertà”, per ribellarsi contro l’uccisione di una ragazza curda, non persiana e non sciita, cioè di una persona che apparteneva alla periferia, al Kurdistan.

Poco dopo aver postato sul mio account Facebook il video della bambina aggredita mentre con la veste insanguinata, piangeva seduta sul ciglio di un marciapiede, il mio post è stato oscurato dal social e io sono stato ammonito a non diffondere il video altrimenti il mio account sarebbe stato chiuso.

Il social mi ha inviato il seguente messaggio:

“Il tuo post viola i nostri Standard della community in materia di abusi su minori. Abbiamo anche aggiunto restrizioni al tuo account perché non hai rispettato più volte i nostri standard (…) Se i tuoi contenuti violeranno ancora i nostri Standard della community, il tuo account potrebbe essere disabilitato”.

Nel denunciare questa misura gravemente censoria da parte della piattaforma Facebook, che in questo modo limita fortemente la libertà di informazione e il diritto umano universale alla libertà di pensiero e di stampa, mi chiedo se questo social sia uno spazio di libertà, come definito dallo stesso suo fondatore Mark Elliot Zuckerberg, oppure uno strumento al servizio di regimi sanguinari e totalitari.

Il regime islamico ha detto alla mamma di Sara di non diffondere la notizia della violenza subita dalla sua bambina ad opera della polizia morale perché le avrebbe fatto fare la stessa fine di Mahsa Amini e Mark Zuckerberg mi chiede di non diffondere più la notizia della violenza subita dalla bambina altrimenti mi chiuderà l’account.

Il regime islamico presto cadrà e cadranno assieme ad esso tutti i suoi accoliti ovunque si trovino e in qualunque modo operino.


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