Un anno di guerra e l’unico a credere nella pace, fra gli attori che contano sulla scena internazionale, sembra essere rimasto papa Francesco. C’è stata una marcia speciale, di notte, da Perugia ad Assisi per chiedere, ancora una volta, che si fermi questo conflitto che sta distruggendo l’intera Europa e riducendo allo stremo il popolo ucraino, anche se la sensazione è che là dove si assumono le decisioni che contano la sordità sia pressoché totale. Ciò che pensiamo di Putin è noto da almeno vent’anni, pertanto non è questo il punto. Il punto è capire dove voglia andare a parare l’Occidente, posto di fronte a una sfida di proporzioni epocali. Perché in ballo non c’è solo la democrazia o la tenuta delle nostre società ma il nostro stesso futuro. Sono in ballo i valori sui quali abbiamo edificato le nostre costituzioni, i nostri principî cardine, il nostro stare insieme. E sono in ballo le nostre vite, ora che sembrano essere saltati tutti gli accordi sullo stop alla proliferazione di armi nucleari e che Russia e Cina hanno deciso di fornire una risposta armata all’attivismo sconsiderato degli Stati Uniti.
Ricorrono in questi giorni i vent’anni dal sequestro, in Italia, di Abu Omar, una vicenda che apparentemente non ha nulla a che spartire con la crisi ucraina ma in realtà c’entra eccome, se non altro con il degrado delle nostre istituzioni e della nostra concezione dei diritti umani. Dal 2001, infatti, in Occidente, e nel nostro Paese in particolare, si sono venute a creare una miriade di zone franche, senza Stato né legge, in cui lo Stato stesso ha deciso di abdicare alla propria funzione e di lasciar fare alla legge della giungla. A questa diffusione del Far West dobbiamo buona parte del nostro declino, compreso l’imbarbarimento di una politica sempre più assente e vuota e la cattiveria dilagante all’interno di una popolazione per sua natura pacifica ma ormai spinta ad assumere comportamenti insostenibili dalla rabbia dilagante e dalla perdita di ogni prospettiva per il domani. Non a caso, eccezion fatta per il giovane Zelens’kyj, gli attori principali di questa guerra sono tutti personaggi attempati, figli di un’altra epoca, con non molto tempo davanti a sé e una visione complessiva da “Muoia Sansone con tutti i filistei”, in quest’orgia bellicistica che tanto esalta una parte consistente dei nostri tronbettieri, a loro volta non più giovani, e altrettanto atterrisce la popolazione. Insomma, ci stiamo giocando l’avvenire, e questo i giovani l’hanno capito. E così, è come se si fosse creata una spontanea solidarietà fra le ragazze e i ragazzi dei nostri licei e delle nostre università e le ragazze e i ragazzi del ’99 che combattono e muoiono in città e regioni in cui, talvolta, non è rimasta pietra su pietra, ucraini o russi che siano, come se queste distinzioni nazionalistiche avessero un minimo di senso quando si assiste a una carneficina di tali proporzioni.
In un’Italia stanca, fragile, impaurita, nella quale le elezioni vengono sempre più disertate, la maggioranza non esiste, l’opposizione men che meno e si passano le giornate a commentare le dichiarazioni imbarazzanti di un vecchio amico di Putin, costantemente sconfessato da una cara amica del gruppo di Visegrád, escluso Orbán, entrato improvvisamente a far parte della lista dei cattivi, sono le associazioni cattoliche, alcuni sindacati, le organizzazioni studentesche e singoli esponenti politici ancora dotati di buonsenso a porsi il problema della prossimità e della cura, al fine di contrastare la sensazione di solitudine, incertezza e smarrimento che si stanno trasformando in disaffezione per la cosa pubblica. Sbaglia, lo ribadiamo ancora una volta, chi pensa che mettere insieme più argomenti sia fuori luogo. Tutto si tiene, invece, compresa l’aggressione squadrista davanti al liceo “Michelangiolo” di Firenze, la bellissima lettera della preside del “Da Vinci” e la reazione, che si commenta da sola, del purtroppo ministro Valditara. Si tiene in un quadro di disarticolazione della società, di dissoluzione di ogni speranza, di rovina generalizzata, di devastazione morale e psicologica, di mancanza di una battaglia collettiva per condizioni di vita di lavoro e di istruzione migliori; in poche parole, per via di una sinistra assente ingiustificata nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di lei.
Avere la guerra dentro, del resto, significa proprio questo: vivere in un clima di continua apprensione, di costante tensione fra le persone, di mancanza assoluta di dialogo e di confronto, di scontro perenne e immotivato, in un susseguirsi di provvedimenti sbagliati, in un’escalation verbale, e talora anche fisica, che porta la democrazia fuori controllo, in un contesto senza umanità, senza poesia e senza pietà in cui sono i rapporti umani a venire meno e non ci si rende conto di avere attorno a sé solo macerie. Macerie diverse rispetto a quelle materiali delle città ucraine, ma non per questo meno strazianti. Le macerie della Costituzione fatta a pezzi, le macerie della scuola umiliata, le macerie dei manganelli alzati dalle forze dell’ordine, le macerie dei cortei in cui vola qualche parola di troppo, le macerie di una nave dei folli che viaggia a tutta velocità verso gli scogli, senza più nessuno al timone né alcuna possibilità di fermarsi.
Stiamo assistendo, da dodici mesi a questa parte, a una guerra senza confini, senza esclusione di colpi, senza informazione o, per meglio dire, con un’informazione completamente di parte, con lo scudiscio in mano, pronta a frustare chiunque osi esprimere un pensiero di pace. E così, abbiamo reso i talk show ancora più inguardabili, i giornali ancora più illeggibili, l’articolo 21 ancora più fragile, la libertà d’espressione ancora più utopistica e le relazioni fra le persone del tutto insostenibili. Se fossimo gli strateghi di Putin, al cospetto di un simile sfacelo, staremmo festeggiando. Perché Putin non è un compagno, un vendicatore di torti o uno di noi, e questo è bene che lo comprenda anche la corrente rossobruna di una sinistra in disarmo, ma un autocrate e un oligarca che, effettivamente, sogna e pianifica l’abbattimento dell’Occidente non tanto in termini militari quanto in termini valoriali, ponendo fine alla società aperta e alle conquiste sociali e civili che ci hanno reso grandi in passato. Il guaio è che l’Occidente delle “extraordinary rendition”, delle guerre continue, di Abu Ghraib, dei fili spinati e dei lager libici opposti ai migranti in fuga dalla miseria, dell’austerity imposta alla Grecia e della ferocia gratuita e sistematica nei confronti di chiunque si batta in nome dei trenta articoli che compongono la Dichiarazione universali dei diritti umani, quest’Occidente è il miglior alleato sia di Putin che di Xi Jinping. Questa è la nostra vera, drammatica debolezza, ed entrambi ne sono consapevoli.