Lo studente al centro del processo di formazione, crescita e sviluppo: basterebbe quest’idea, e non è retorica, a rilanciare la sinistra e il fronte progressista. Se finora non è accaduto, le responsabilità sono molteplici e nessuno può tirarsi indietro. Non capire il vero obiettivo di questa destra, tuttavia, sarebbe esiziale. In una fase storica segnata dalla paura e dall’incertezza, in cui le fabbriche chiudono, i posti di lavoro scarseggiano e l’economia non cresce, con lo spettro della cassa integrazione e dei licenziamenti che incombe su numerose realtà, comprese quelle un tempo floride, c’è infatti un’unica categoria che può permettersi ancora il lusso di manifestare liberamente: gli studenti e le studentesse. La demonizzazione nei loro confronti nasce da qui e, naturalmente, dilaga nel Paese, complice un giornalismo in continua ansia da scoop e sensazionalismi vari e una politica che corre dietro alle notizie negative per strumentalizzarle per scopi miserevoli. È così che nasce il clamore sorto intorno a sporadici casi di violenza, ovviamente esecrabili e da condannare ma che non esauriscono in alcun modo il vasto discorso relativo alla scuola italiana. Una scuola sotto assedio, travolta, negli ultimi trent’anni, da una miriade di riforme sbagliate e dannose, inserita nel contesto di una società sempre più violenta e malvagia, contornata da un tessuto civico che non regge più e, di fatto, sacrificata sull’altare di Leggi di bilancio che hanno preferito destinare i soldi ad altri settori. In mezzo a questo sfacelo, sono cresciute e si sono diplomate e laureate tre generazioni di ragazze e ragazzi.
Ora, senza scomodare sempre i fatti di Genova, non c’è dubbio che l’attacco ai giovani sia diventato una delle specialità delle classi dirigenti del nostro Paese. Descriverli come apatici, incapaci, ignoranti, maleducati, violenti e impossibili da ricondurre sulla retta via è diventato il marchio di fabbrica di una serie di attempati personaggi che nel ’68 volevano “impiccare l’ultimo papa con le budella dell’ultimo re”, nel ’77 volevano fare la rivoluzione e oggi si indignano e chiedono pene severissime per la benché minima marachella. Sarebbe grottesco se non fosse tragico. La verità è che i giovani mettono paura e danno fastidio. Danno fastidio perché, nonostante la devastazione culturale che impera dall’ascesa delle tivù berlusconiane in poi, nonostante il vuoto totale di partiti, istituzioni e corpi intermedi, nonostante la filosofia thatcheriana della società che non esiste, nonostante l’individualismo e l’egoismo spinti allestremo, insomma nonostante degli adulti rimasti bambini o diventati reazionari dopo aver creduto nel “Sol dell’Avvenire”, ancora manifestano e dicono la loro. I ragazzi e le ragazze che stanno subendo insulti a pioggia da una serie di tromboni che ormai si leggono solo per vedere fin dove arrivano ogni volta, fin dove si spinge il loro livore e la loro incomprensione della realtà contemporanea, questa generazione è la stessa che sta ponendo al centro dell’attenzione il tema ambientale, la necessità di un altro mondo possibile e ormai indispensabile, il bisogno di un’economia che elevi l’essere umano anziché stritolarlo, il valore di un lavoro che torni a rispondere ai principî cardine della Costituzione, e sia dunque ben pagato e adeguatamente tutelato, e, aspetto più importante in assoluto, la bellezza dei rapporti umani. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: senza umanità non c’è futuro e tutto perde di senso.
Porre lo studente al centro, pertanto, significa non sgravarlo dai problemi che si presentano sul suo cammino, azione peraltro impossibile, ma prenderlo per mano e insegnargli a superarli nel miglior modo possibile. Significa educarlo con amore e rispetto, in un ambiente salubre, in strutture non fatiscenti, in aule spaziose e inondate di luce, attraverso uno studio che ne valorizzi le potenzialità e ne esalti la capacità di lavorare in sinergia con gli altri, senza sommergerlo di inutili compiti a casa che cristallizzano le disuguaglianze fra chi viene da una famiglia colta e abbiente e chi è nato indietro e liberandolo dallo stress, vero cardine del liberismo ed elemento deleterio per il nostro vivere civile.
Sosteneva Maria Montessori: “Se v’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo non potrà che venire dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”. E pare che una volta Federico Caffè, conversando con un collega, gli indicò alcuni ragazzi e ragazze, affermando: “Sono i libri che non abbiamo ancora scritto”.
Porre lo studente al centro, pertanto, significa investire nel futuro dell’Italia, crederci veramente, battersi per una selezione migliore e più rispettosa del corpo docente, innanzitutto garantendo a ciascun insegnante uno stipendio degno di questo nome, come avviene ad esempio in Germania, e il riconoscimento e il prestigio sociale che merita. Significa, poi, rilanciare l’alleanza educativa fra ragazzi, docenti e famiglie. Significa, infine, non aver paura della modernità e investire eccome sul digitale, sulle nuove tecnologie, sulle lezioni innovative, su ogni esempio e modello di didattica adeguata al Ventunesimo secolo e sul protagonismo di una generazione nata ai tempi della rete e dei social e, quindi, abituata a confrontarsi apertamente col mondo e a non avere timori reverenziali.
La scuola della paura, dei voti, delle sospensioni, delle bocciature, della cattiveria gratuita e dell’umiliazione, oltre a essere sbagliata e dannosa, è anche inattuabile. Non c’è neanche bisogno di rifarsi a don Milani: basta confrontarsi con sano realismo con la contemporaneità.
Porre lo studente al centro è la più grande rivoluzione che si possa compiere, formando i cittadini e le cittadine di domani e facendo sì che siano rispettosi delle regole ma non certo subalterni al potere, dotati di un sano spirito critico e capaci di interagire con un mondo sempre più globale e interconnesso. Perché la globalizzazione non è un problema ma una straordinaria risorsa, a patto che sia basata sulle persone e non sulla finanza, sulle merci e sul dominio di pochi padroni del vapore a scapito di miliardi di abitanti del pianeta. Perché il futuro è già qui, ed è inutile pensare di potersi rifugiare in un passato che non esiste più e che è stato caratterizzato sì da alcuni aspetti positivi ma anche da tante ingiustizie e discriminazioni. Perché l’inclusione è un antidoto alla sanzione, la comprensione è l’opposto della frustrazione e dell’abbandono scolastico, il lavoro cooperativo consente al più bravo di aiutare il più incerto e di andare avanti insieme e perché in una società democratica nessuno può salvarsi da solo.
Seguo la scuola da quasi vent’anni, me ne occupo fin da quando ero studente e ho sempre pensato che democratizzarla e renderla più aperta e meno nozionistica sarebbe una riforma in grado di farci guadagnare non solo in termini di PIL ma, più che mai, di felicità e di benessere, parametri economici essenziali e purtroppo drammaticamente ignorati dai cattivisti in servizio permanente effettivo e dai loro complici fra le persone perbene che si vergognano di essere tali.
Ci sono aree del Paese in cui l’abbandono scolastico significa l’ingresso nella malavita, la precarietà esistenziale, la sconfitta della persona e il suo divenire preda di ogni possibile sopruso. Vale pressoché ovunque, ma dove lo Stato è meno presente e i presidi di legalità meno diffusi il dramma sociale è dietro l’angolo.
“Un’Italia più giusta e più buona”: era il programma politico della Resistenza, il cuore dell’editoriale di Enzo Biagi su Patrioti, rivista della brigata Giustizia e Libertà – Divisione Bologna, la forma più nobile di ripudio di ogni fascismo.
Porre lo studente al centro e combattere la furia imperante significa amare e attuare la Costituzione: la nostra ragione di vita, la base del nostro impegno politico e civile.
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