Non sappiamo per chi voti Amadeus e non ci interessa. Non conosciamo le sue idee politiche e non è opportuno indagarle, anche se alcune scelte ci sembra che vadano in una chiara direzione. Basta fare un confronto fra il trionfo di Sanremo e la diserzione delle urne nel Lazio e in Lombardia, però, per rendersi conto di un aspetto che balza agli occhi di chiunque voglia ancora vedere e ragionare sulla natura dei fenomeni. Il Festival ha fatto segnare cifre record, coniugando l’alto e il basso, mescolando generi, generazioni e mondi differenti, al punto che la definizione di “minestrone nazionalpopolare”, perfetta ai tempi di Baudo o di Mike Bongiorno, di fronte a questa kermesse targata Amadeus, stona e parecchio. Ci vorrebbe Umberto Eco per scrivere la “Fenomenologia di Ama”; fatto sta che alcuni elementi siamo in grado di coglierli anche noi. L’aspetto più significativo è senz’altro la sua capacità di vivere nel presente, di frequentare la realtà e di non aver paura del confronto con diavolerie che magari non padroneggia ma neanche schifa, esibendo l’alterigia tipica di una certa sinistra in disarmo, che ripudia tutto ciò che non comprende e pretende sempre di montare in cattedra pur avendo fallito ormai su tutti i fronti.
Ama, invece, si è posto con rispetto. Ha unito lo schermo piccolo e quello piccolissimo, il televisore e gli smartphone, la prima serata su Raiuno e Instagram, le note d’amore e gli echi di guerra, le meritorie battaglie per l’emancipazione femminile e contro tutti gli stereotipi e l’importanza del riscatto degli ultimi e di chi ha sbagliato, i ragazzi e le ragazze del carcere minorile di Nisida e la lotta al razzismo di Paola Egonu, le voci di giganti come Gino Paoli e Ornella Vanoni e la freschezza di Lazza e di Ariete, la voce di Giorgia e quella di Elodie, la lirica di Mengoni (vincitore indiscutibile) e la purezza di Mr. Rain. Insomma, è stato davvero alla portata di chiunque e in grado di parlare un linguaggio semplice che arriva dritto al cuore delle persone: l’opposto della nostra classe politica, che ha provato in ogni modo a strumentalizzare il Festival e a trascinarlo in polemiche insulse di cui avremmo fatto volentieri a meno. E così, ci si passi questa simpatica provocazione, è nato il partito dell’Ariston: un soggetto iperpolitico che non si presenterà mai alle elezioni ma che, se si presentasse, le stravincerebbe; un soggetto trasversale e anche discretamente colto che non sopporta né la pesantezza retrograda di chi si impressiona per un bacio fra due uomini né quella pseudo-progressista di chi vorrebbe che Chiara Ferragni si trasformasse in Rosa Luxemburg e guidasse le masse diseredate alla riscossa; un soggetto che sa ancora sorridere, divertirsi e vivere, in una società resa sempre più liquida dalla scomparsa dei corpi intermedi e sempre più fragile dal cattivismo dilagante. Per questo, ben vengano i messaggi speranza di Francsaca Fagnani e Paola Egonu. Ben venga l’idea che la cultura è di gran lunga preferibile all’illegalità. Ben venga il tema del parto e della maternità, inteso come libertà di scelta della donna, come affermato da Chiara Francini.
Ben venga il sostegno alle donne iraniane, in lotta contro un regime totalitario e disumano, e grazie a Drusilla Foer e Pegah Moshir Pour per essersene fatte interpreti. Ben venga il concetto secondo cui a ciascuno dev’essere offerta una seconda possibilità, qualunque sia la sua colpa. E ben venga la difesa della scuola, unico ascensore sociale possibile per chi viene dal basso, a patto che il merito non si trasformi in una clava per accanirsi contro i più deboli. Ben venga, insomma, un’Italia normale, pulita, serena, capace di lasciarsi andare al karaoke nella serata delle cover e di stipulare, anche sul palco dell’Ariston, l’alleanza nonni-nipoti, che dall’America di Sanders alla Francia di Mélenchon sembra essere uno dei tratti distintivi del nostro tempo. È, poi, molto positivo anche il fatto che dei ragazzi e delle ragazze di vent’anni abbiano aiutato i propri coetanei a scoprire la grandezza di Battiato e De André, e sinceramente riserverei l’indignazione, peraltro nel caso specifico del tutto fuori luogo, ad argomenti per cui ne valga la pena.
Se andiamo ad analizzare i dati del partito dell’Ariston ci rendiamo, dunque, conto che coincide quasi per intero con il numero dei non votanti, ossia di quei tanti, troppi cittadini e cittadine che hanno deciso di aspettare tempi migliori per tornare a esprimersi nella cabina elettorale, poiché non sanno più né per chi né per cosa recarsi a votare, non sentendosi ascoltati né rispettati da nessuno. È un dato allarmante ma, nella sua drammaticità, finanche positivo, poiché ci dice che esiste una cittadinanza attiva, politicamente partecipe e socialmente appassionata che non è più disposta a votare a scatola chiusa, rendendosi complice di un degrado collettivo che non può e non deve più essere legittimato.
Infine, un pensiero alla nostra Costituzione, fortunatamente riscoperta in tutta la sua bellezza da Benigni e, a quanto pare, difesa anche da Mattarella, in vista dello scontro con le ambizioni presidenzialiste di una destra che ormai ha gettato la maschera, utilizzando il Festival per definire, in contrapposizione, la propria natura e i propri intenti. Aver ricordato l’articolo 21 e i principî fondamentali della Carta è un merito straordinario, l’ennesimo di un’edizione felice, con buona musica e tanta armonia, maggioritaria nel Paese reale ma resa minoritaria da un sistema elettorale che si commenta da solo e non è certo più credibile del televoto.
Quanto a certa sinistra, o presunta tale, quando capirà che l’egemonia della destra si misura anche dal fatto che li hanno resi come e peggio dei loro, al punto di essere più feroci ed escludenti di quanto non siano gli speriamo ex camerati, ringalluzziti dalla stanza dei bottoni, sarà sempre troppo tardi.
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