Sfumano grandi ambizioni. La Cina superpotenza dominante, sorpasso in vista degli Stati Uniti nella leadership globale. Fino a qualche tempo fa in molti davano per imminente la supremazia mondiale di Pechino con la sconfitta di Washington.
Per molti analisti il dinamismo dell’Oriente autocratico avrebbe battuto l’Occidente democratico. La Repubblica popolare cinese batteva primati in tutti i campi: nell’alta tecnologia (mandava le sue sonde sulla Luna per preparare uno sbarco di astronauti entro il 2030), nell’economia (l’altissimo tasso di crescita faceva impallidire i paesi occidentali), nello slancio militare (costruiva addirittura delle isole artificiali al largo delle sue coste per nuove basi aeree).
Xi Jinping era ed è sempre più temuto e rispettato all’estero e all’interno. Già, anche all’interno dell’immenso paese di quasi un miliardo e mezzo di abitanti, perché il segretario del Partito comunista e presidente della Repubblica popolare ha rotto la consuetudine della gestione collegiale del potere inaugurata da Deng Xiaoping. Ha abolito il limite dei due mandati da presidente ottenendo anche il terzo: in questo modo ha eliminato tutti i dissensi interni e conseguito un potere assoluto pari quasi a quello di Mao Zedong.
Ma improvvisamente è caduto il fortissimo dinamismo del Dragone: la severissima politica di “zero Covid” realizzata per quasi 3 anni è fallita, manifestazioni popolari di protesta sono scoppiate in molte città contro le pesantissime “chiusure”. Xi Jinping ha deciso la marcia indietro liberalizzando la mobilità per le contenere le proteste popolari e per sostenere la ripresa del sistema produttivo. Però il numero dei morti e dei contagiati è salito enormemente: si conterebbero 9.000 decessi al giorno e gli ospedali sarebbero in tilt. Morti e malati starebbero riducendo fortemente il ritmo di crescita economica del gigante asiatico.
La Cina superpotenza zoppica. Xi Jinping cerca di rispondere alle difficoltà spingendo il pedale del nazionalismo. In primo luogo rilancia costantemente l’obiettivo di riprendere “la provincia ribelle” di Taiwan, l’isola con un governo democratico alleata degli Usa. Non a caso di tanto in tanto fa svolgere delle minacciose esercitazioni militari aeree al largo delle coste dell’isola soprattutto dal giorno dell’imprudente visita di Nancy Pelosi a Taipei.
Il faccia a faccia tra Xi Jinping e Joe Biden a Bali, durante la riunione del G20, ha avuto risultati in chiaro-scuro. Il presidente cinese (alleato tiepido di Vladimir Putin) e quello americano hanno ribadito la messa al bando delle armi nucleari e la necessità di ricercare la pace per porre fine alla guerra della Russia in Ucraina, ma hanno confermato la competizione per la leadership mondiale. Biden ha annunciato: «Gli Stati Uniti continueranno la propria vigorosa concorrenza alla Cina» ma resterà «responsabile per non sfociare in un conflitto». Il presidente cinese ha fatto un ragionamento analogo invitando al reciproco rispetto. Quando Biden gli ha sollecitato il rispetto dei diritti numani la risposta è stata decisa: «Proprio come gli Stati Uniti hanno una democrazia in stile americano, la Cina ha una democrazia in stile cinese». Bene il dialogo, comunque Taiwan, ha avvertito, è «la prima linea rossa da non superare nei rapporti tra Usa e Cina».
Il problema non è di poco conto: Taiwan è un paese democratico, dotato di una industria elettronica avanzata (è tra i maggiori produttori al mondo di microchips), geloso della propria indipendenza. Gli Stati Uniti si sono impegnati a difendere la sua sovranità, Washington si gioca la sua credibilità in Estremo oriente: gli alleati dell’America (Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Indonesia) guardano con grande preoccupazione all’espansionismo di Pechino. Ma ora zoppica la Cina superpotenza con mire alla supremazia globale.