“Ha mai dato della puttana a sua moglie?”
“Non mi sarei mai dato del cornuto”.
“Ha mai picchiato sua figlia F.?”
“In 25 anni qualche schiaffo è scappato”.
“Quante volte ha rasato a zero sua figlia, per punizione?”
“ Una sola volta”.
“Ha mai preso i soldi della pensione di invalidità di sua figlia, contro la sua stessa volontà?”
“Una sola volta, cento euro a prestito poi restituiti”.
In oltre tre ore di deposizione il marito e padre di quattro figlie, accusato di maltrattamenti violenze e aggressioni familiari che duravano da vent’anni, ha sostanzialmente ammesso quanto sopra.
Nega l’accusa di aver lanciato, durante un litigio, una insalatiera contro la moglie, nega il cuscino sulla faccia di una delle figlie per farla stare zitta, o di aver punito un’altra ragazza facendola mangiare sulla tazza del water, senza posate. Nega o al più, non ricorda. Di fatto quindi il racconto processuale fatto dalle quattro donne di famiglia che si dichiarano vittime, a tal punto da denunciarlo, sarebbe null’altro che un complotto ordito contro di lui per motivi di gelosia da parte della moglie e paura, da parte delle figlie, che lui avesse un figlio con un’altra donna e che potessero esserci, quindi, altri eredi.
Stiamo parlando di una vicenda familiare in cui è emerso, tra l’altro, come l’indagato abbia guadagnato 18mila e 500 euro di reddito complessivo in 23 anni. Una vita, parte della quale, scritta nel certificato dello storico delle carcerazioni dell’accusato.
Milano, davanti al collegio penale presieduto dalla giudice Mariolina Panasiti e i due a latere Valeria Recaneschi e Fabio Processo, si è chiusa l’istruttoria dibattimentale nel processo che vede alla sbarra l’uomo per il quale il pm Giovanni Tarzia e l’aggiunto Maria Letizia Mannella – del V Dipartimento della Procura di Milano – avevano chiesto il giudizio immediato.
Terminate le conclusioni dei difensori delle parti civili il legale Alessia Pucci, seguite dalla requisitoria del pubblico ministero; il prossimo 31 gennaio sarà il giorno delle conclusioni che spettano della difesa affidata all’avvocato Giovanna Creti del foro di Milano.
Ad assistere al processo c’è sempre anche la madre dell’imputato, in carcere dal dicembre del 2021, quella donna si sveglia all’alba per fare le pulizie: oltre al figlio, che ora è dietro le sbarre dell’aula 9, ne ha altri 7 avuti con un marito tossicodipendente e che, da quanto racconta nel corridoio durante una pausa, non le ha fatto mai mancare la sua dose di botte.
La donna entra nel processo solo in quanto teste ma guardare lei è anche comprendere il contesto complessivo di una realtà che sembra la sceneggiatura di una pellicola dedicata alla “normalità” della violenza domestica. Quel padre aggressivo e violento che in quelle tre ore di dichiarazioni, con orgoglio, rivendica il suo sentire: “Ammazzo chiunque possa fare del male a mia moglie e alle mie figlie”. E’ il suo modo di “amare” quelle quattro donne: possesso, controllo, gelosia, aggressività e costrizione.
Una brutta storia, tutta italiana, iniziata in Campania nel 2003 quando la moglie aveva solo 22 anni e tre delle loro quattro figlie poco più di 4, 2 anni e la terza solo qualche settimana. Sevizie, violenze, calci, pugni minacce di morte. Persino un sacchetto di plastica stretto al collo della moglie davanti agli occhi delle minorenni dall’uomo – allora ventiquattrenne – che considerava sua proprietà e dunque legittimato a qualsiasi nefandezza, il resto della famiglia.
Al termine della requisitoria del magistrato la richiesta di condanna a 16 anni e 6 mesi di reclusione e a pagare 11.700 euro di multa. Nel dettaglio, una sintesi: per maltrattamenti contro familiari: “Rientrato in casa con degli amici al fine di assumere con questi sostanza stupefacente, privava della libertà personale la moglie e le figlie – le ultime due poco più che quattordicenni – chiudendole a chiave in camera da letto, per circa un paio d’ore; violenza e minacce – con la recidiva specifica infra-quinquennale reiterata – e ancora delitto p. e p. dagli artt. 81, 629, comma 2 in relazione all’art. 628 bn. 3 bis 61 co. 1 N. 2, 99 comma 4 c.p. perché, viene specificato: “Mediante reiterate e frequenti minacce, costringeva la figlia a consegnargli sia denaro contante sia la carta ricaricabile su cui veniva accreditata la pensione di invalidità, procurando a sé un ingiusto profitto, costituito dal denaro prelevato tramite la carta e depositato nella propria cassaforte, con altrui danno”.
E poi: artt. 81, 609-bis, 609 ter, n. 5 quater, 61 co. 1 N. 2, 99 comma 4 c.p. in quanto “ con violenza e minaccia, costringeva in numerose occasioni la moglie a compiere e subire atti sessuali approfittando del clima intimidatorio con violenza consistita in urla e nello svestirla con forza e nel rincorrerla per evitarne la fuga, la obbligava ad avere rapporti sessuali completi”. Più le aggravanti di aver commesso il fatto nei confronti del coniuge.
Le vicende registrate in questo processo sono la somma del peggio di uno spaccato di Italia fatto di miseria e non solo economica. Dove tutti, però, fanno video su tic tok, dove quando sta per nascere un bambino non si perde occasione della festa – mutuata dagli Usa del baby shower -; dove chi è agli arresti domiciliari riesce a ottenere un prestito da una regolare società fiduciaria, consumo di droga, alcolici e i classici magheggi, andati peraltro a buon fine, per ottenere il reddito di cittadinanza. Non manca la sparatoria e la decisione di fuggire dalla Campania per evitare che il boss della zona faccia pagare a caro prezzo “il rifiuto a fargli un favore”.
L’accusato è un uomo che non perde occasione di denigrare la moglie come emerge anche durante la sua deposizione, in alcuni passeggi: “A letto facevamo di tutto”, “ha comprato il formaggio che il vicino rubava al supermercato per spedirlo ai suoi a Napoli”. Un uomo caratterizzato da “ quella fame” di soldi. Lui “acchiappava da dappertutto” dallo stipendio della moglie, dai soldi che guadagnava una delle quattro figlie e dalla pensione di invalidità di un’altra. Un padre padrone che nutriva una gelosia ossessiva tanto da posizionare telecamere ovunque persino nel bagno di casa: dal suo telefonino poteva così controllare le “sue” donne.
Una quotidianità fatta di minacce, della necessità di chiedere permesso per ogni cosa, la continua richiesta di soldi per droga e bottiglie: la “nullafacenza” di un uomo che reagiva con “animalesca aggressività”.
Durante il processo l’imputato guarda la madre che scuote la testa come a cancellare le pesanti accuse. Lei che per un periodo ha anche accolto l’intera famiglia a casa sua a Milano: meno di 40 metri quadrati di casa in cui arrivò quindi l’intero nucleo familiare di cinque persone.
La stessa Presidente Panasiti durante l’istruttoria dibattimentale più volte si è trovata sottolineato l’habitat maschilista nel quale sono avvenuti i fatti. Nei dettagliati atti del processo, fra le tante, l’ultima dichiarazione di una delle figlie, interrotta dalle lacrime: “Cioè poteva essere un padre migliore”, capito? Ho subito parecchio, vedendo brutte scene già da bambina, la violenza, lui che si drogava già, cioè non ha dato un bell’esempio a noi. Ho sofferto parecchio io che sono la più grande, perché capivo, iniziavo a capire. Mia nonna che ci aiutava, cioè è stata la mamma di mia mamma… ci aiutava tantissimo. Io ero costretta a dire vicino a mia nonna: “Sì, nonna, tutto bene. Papà lavora”, invece no, dentro stavo morendo perché mia nonna non sapeva che mio padre picchiava nostra mamma, picchiava noi e si drogava, dovevo fingere che andava tutto bene pure sul lavoro, quindi stavo sempre… tenevo tutto dentro”.
e.reguitti@ilfattoquotidiano.it
*da newsletter Giustizia di Fatto del 26 gennaio 2023”