La realtà, cinica e spietata come solo lei sa essere, ci dice con chiarezza che in Italia esistono due vuoti. Il primo è costituito dal governo: un esecutivo fragile e rissoso, composto da varie debolezze destinate a non tramutarsi in forza, nemmeno unendosi per mancanza d’alternative grazie all’astuzia, che purtroppo manca a sinistra, di valutare se non gli interessi della collettività, quanto meno i propri. Il secondo dall’opposizione: inesistente, frastagliata e in guerra con se stessa, destinata a perdere malamente dove pure era maggioranza, nel Lazio, e a perdere bene, ma di questi tempi non basta, dove da quasi trent’anni è minoranza, ossia in quella Lombardia che finirà col riconfermare Fontana più per disperazione che per effettiva convinzione.
Partiamo dal governo. Giorgia Meloni, abbandonata, almeno nei toni, la stagione lepenista, riposto in frigorifero il pregiato frutto con cui ha fatto campagna elettorale persino nel giorno del voto e abbassati i decibel dopo anni trascorsi a gridare nelle piazze e persino in Parlamento, si vede ora costretta a fare i conti con i problemi effettivi di un Paese sull’orlo del collasso. Non bastassero le difficoltà concrete, che nessuno nega e di cui sarebbe scorretto attribuirle la colpa, essendo in carica da appena tre mesi, “il signor Presidente del Consiglio” deve fronteggiare un’altra emergenza, ossia la complessiva inadeguatezza della sua compagine. Non ce ne voglia questa donna combattiva, che dalle sezioni missine e post-missine è giunta ai vertici dello Stato e non accenna a calare nei sondaggi, almeno per ora, ma nel suo esecutivo ci sono poche figure che sanno cosa bisogna fare e provano a farlo, molti che straparlano e qualcuno, vale anche al femminile, che davvero costituisce motivo di imbarazzo per la stessa premier, costretta talvolta a intervenire per evitare conseguenze spiacevoli a un gruppo che dà l’amara impressione di non sapere da che parte cominciare.
Del resto, quando uno dei tuoi ministri più capaci e stimati è costretto a parlare di “machete” e a prendersela con i boiardi di Stato, accusati di frenare l’azione del governo, dunque da cambiare per sostituirli con figure ideologicamente vicine all’attuale maggioranza, quando accade una cosa del genere significa che la paura di andare in difficoltà alla prima insidia la fa da padrona. La fragilità di questa compagine, ahinoi, è sotto gli occhi di chiunque. Fra quello che tesse l’elogio dell’umiliazione come elemento importante nel percorso formativo di ragazze e ragazzi, tentando poi di salvarsi in corner una volta divampata la polemica, l’amico storico di Putin che ogni tanto gli fa da ventriloquo, il leader leghista che deve guardarsi dalla possibile fronda dei suoi, pertanto, a seconda dei momenti e di come gli gira, si lancia in proclami identitari, la questione degli sbarchi gestita “à la Salvini” da uno che pure dovrebbe essere del mestiere, la guerra al buonsenso su contante, rave e vari elementi di modernità che non c’è alcun motivo di modificare o mettere in discussione e le classiche scaramucce tra alleati, che ci sono sempre state ma in questo caso vengono accentuate dalla tragicità del quadro internazionale e dall’oggettiva debolezza della squadra nel suo insieme, quella che doveva essere una rivoluzione conservatrice rischia di trasformarsi in una restaurazione senza alcun elemento di novità e fin troppi di regressione. Come detto, nel Lazio e in Lombardia, con ogni probabilità, la spunteranno, e così anche in Friuli Venezia-Giulia, dove tuttavia lo Zaia del Tagliamento è più un doge locale che che un seguace del suo capo, ma non sarà da questi particolari che verranno giudicati dall’opinione pubblica. Il disastro che stanno combinando sulle accise sulla benzina, le proteste studentesche, ben motivate per tutta una serie di ragioni su cui non si riflette mai abbastanza, l’esplosione dei prezzi per via dell’inflazione galoppante, la penuria energetica e la bomba sociale dei percettori del Reddito di cittadinanza, che rischiano, dopo l’estate, di trovarsi in mezzo a una strada e senza alcun aiuto da parte dello Stato, queste emergenze, sommate alla crisi ucraina che non accenna a risolversi e all’assenza ingiustificata dell’Unione Europea sulla scena globale, rischiano di far andare a gambe all’aria una congrega di personaggi che non ci sembra proprio attrezzata per navigare in mezzo alla tempesta.
E questa è Sparta. Ora veniamo ad Atene. Se non fossimo nella situazione terribile che abbiamo appena descritto, più che da piangere, ci sarebbe da ridere. Basti pensare al PD, che continua a dividersi su tutto mentre i sondaggi lo danno sempre più a picco. Basti pensare alla furia della sua vasta ala conservatrice, che non ha ancora capito che siamo nel 2023 e continua ad andare dietro a quello che sanzionò i cellulari in classi ben prima di Valditara e a una serie di soggetti che, evidentemente, non si è accorta che i referendum su cannabis ed eutanasia legale, benché bocciati dalla Consulta per ragioni su cui preferiamo non indagare, erano stati spinti dalla firma digitale di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi. Basti pensare a questa gazebata post-ecatombe alle Regionali, in cui viene addirittura da chiedersi se si troveranno non gli elettori e le elettrici ma i militanti desiderosi di allestire i seggi. Basti pensare alla loro incapacità di fare ammenda per gli errori compiuti, al punto che solo Boccia, almeno fra coloro che ho avuto modo di ascoltare finora, ha ammesso pubblicamente che la riforma del Titolo V della Costituzione è stata un errore. Basti pensare a tutto questo per mettersi le mani nei capelli. Ed è un peccato che ancora, neanche nell’area Schlein, cui personalmente guardo con interesse e persino con una certa stima, siano state dette due parole sulla globalizzazione dissennata e senza regole che i progenitori del PD hanno esaltato quanto e, talvolta, più della destra. E anche sul piano sociale e delle politiche sul lavoro limitarsi a parlare di equità non può bastare. Hanno messo in discussione il renzismo, questo sì, e gliene va dato atto, per quanto non con la fermezza che sarebbe stata necessaria dopo tutto quello che è accaduto in questi anni. È un buon punto di partenza, d’accordo, ma per restituire fiducia e convinzione a chi si è allontanato servirebbe una chiarezza di toni e di contenuti che, al momento, non è alle viste.
Venendo ai 5 Stelle, occorre una critica non meno intensa. Perché va bene che Letta ha sbagliato molto, va bene l’orgoglio, va bene il tentativo di Conte di accreditarsi come leader indiscusso del fu Campo progressista, va bene tutto, ma anche il nostro “Giuseppi” dovrebbe cominciare a rendersi conto che al 2024 rischia di non arrivarci vivo, politicamente parlando, nemmeno lui. Perché il PD potrebbe implodere ma non ce lo vedo il M5S a sfondare il tetto di cemento armato che ha sopra la testa e a tornare ai fasti del 2018. Mancano le premesse, l’entusiasmo, la militanza, le prospettive, le proposte, la freschezza, il senso di novità; insomma, mancano i presupposti per tornare a essere egemoni. E guidare un campo minato, con le abitazioni ridotte in macerie e fiumi di sangue sparsi lungo le strade, perdonateci per l’immagine cruenta, non sembra essere una grande idea. Keynes, lo stesso che aveva predetto che la presunta pace di Versailles stava preparando una nuova guerra, sosteneva pure che “nel lungo periodo siamo tutti morti”; pertanto, l’attesa messianica del 2024, con il proporzionale delle Europee come campo di battaglia ideale per regolare i confini con i rivali, interni ed esterni, non ci pare una tattica particolarmente intelligente.
La vera forza del Conte II risiedeva nel fatto che, benché l’amalgama non fosse granché riuscita, PD e 5 Stelle crescevano entrambi e procedevano di pari passo, trovando su alcuni temi persino un idem sentire che ha consentito, ad esempio, di affrontare al meglio la crisi pandemica. Illudersi, su un versante, di poter dichiarare guerra al partito di Conte per riabbracciare il tardoblairismo strafallito del duo Renzi-Calenda e sull’altro di prosciugare il PD e prenderne il posto sono due assurdità distopiche che, come sempre avviene quando entrano in gioco gli opposti estremismi, conducono nel baratro. Il guaio è che qui a finire nel baratro è il Paese. Due vuoti contrapposti, infatti, ottengono, come unico risultato, l’esaurirsi di quel che resta della partecipazione popolare e il dilagare di forme esasperate di contrapposizione che finiscono col nuocere a tutti.
In questo gigantesco cratere che è diventata politica italiana, tutto si logora, ogni passione si perde e il concetto stesso di fiducia viene meno. Occhio, però, a non tirare troppo la corda perché gli assalti a Capitol Hill e a Planalto stanno lì a ricordarci quanto sia sottile il filo che tiene insieme la nostra comunità. E in quale abisso potremmo sprofondare qualora quella flebile fiammella di speranza chiamata democrazia parlamentare dovesse spegnersi definitivamente. Diciamo che le pulsioni presidenzialiste, tanto care a questa destra e non efficacemente contrastate dagli altri, rischiano di accelerare il processo di dissoluzione del nostro tessuto civico. Qualora dovesse accadere, l’ossimoro della democrazia autoritaria si materializzerebbe davanti ai nostri occhi.
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