Solo sul mercato africano esistono più di 150 marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti , facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. E allorquando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti “naturali”, non per questo meno tossici.
Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di «Le Monde» del 2008 rivelava una tendenza sempre più diffusa: il desiderio di sbiancarsi la pelle anche da parte delle cittadine francesi di origine africana. E lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle “mélaniques”, basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione.
Lo studio e la ricerca condotti da Faloppa ripercorrono i tratti salienti della nascita della “necessità” di «sbiancare un etiope» (un moro, un nero, …) da cui deriva direttamente la “volontà” odierna di farlo.
Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata per e dalla maggior parte della popolazione, da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, paradossalmente, anche da molti afferenti la stessa NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi.
La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento. Si tratterebbe di una vera e propria sottomissione psicologica per gli ex colonizzati, che andrebbe superata con un rovesciamento totale non soltanto dei valori ma delle categorie analitiche.
Ma quando nasce davvero la “necessità” di sbiancare i neri e perché?
«The two pioneers of civilation, Christianity and commerce, should ever be inseparable.»
La civilizzazione e i suoi messaggi sembrano essere indissolubili non soltanto dal commercio ma anche dalla cristianità e dalla missione civilizzatrice di entrambi. È questa la celebre sentenza pronunciata dall’esploratore David Livingstone.
Il concetto di fondo della sentenza Livingstone sembra aver ispirato diverse campagne pubblicitarie, in particolare quelle di aziende che producevano saponi talmente efficaci da riuscire a sbiancare finanche la pelle di un nero.
La pulizia non era solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto – fin dalla prima metà dell’Ottocento – un fatto morale: un sigillo di rettitudine, una benedizione della proprietà domestica e un dovere civile. La pulizia era vista come un bene assoluto, usato spesso inconsciamente come una sorta di “scorciatoia simbolica” per una serie di altri “beni” immateriali e valori: dalla rispettabilità pubblica all’ordine domestico, dalla probità economica all’onestà sessuale (la monogamia, ovvero il clean sex).
La sporcizia, per contro, era vista come un male in sé, specchio e indizio di altri mali, tanto fisici quanto morali. Andava lasciata fuori casa e fuori dalla società, allontanata, negata.
Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppo concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina.
Uno dei feticci nella costruzione della polarizzazione (colonizzatori-civili versus colonizzati incivili da civilizzare) fu il sapone, che negli ultimi decenni del XIX secolo diventò il “talismano della modernizzazione”, simbolo e strumento di una vera e propria “tecnologia di purificazione sociale”, il “principio della civilizzazione”, dal cui consumo si potevano misurare la ricchezza, il livello di civiltà, la salute e la purezza di un popolo.
L’uso e il consumo del sapone come di altri prodotti detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da tutti questi aspetti simbolici egregiamente indagati da Faloppa nel libro.
Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine.
Nel 2017 una pubblicità della Dove fu al centro di polemiche: grazie al potere del brand, una ragazza nera si trasformava in una ragazza bianca dai capelli rossi. Per l’azienda si trattava di un omaggio alla diversità, Ma l’effetto sbiancante del docciaschiuma appariva nella migliore delle ipotesi, sottolinea l’autore, un inspiegabile scivolone, nella peggiore un messaggio razzista, neanche tanto velato.
Nel 2011 la stessa azienda aveva lanciato una pubblicità nella quale le immagini di tre ragazze – una riccia e nera, la seconda con i capelli scuri e la pelle olivastra e infine la terza con i capelli biondi e la pelle chiarissima – erano accompagnate dal claim «Prima e dopo».
La ricerca condotta da Faloppa va avanti da oltre venti anni e, naturalmente, non è conclusa. Purtroppo, verrebbe da dire. Perché episodi di discriminazione, di presunta manifesta superiorità da parte dei bianchi sono tutt’ora all’ordine del giorno. Tuttavia ciò che l’autore è riuscito a far emergere e che va a comporre il libro è davvero impressionante, notevole e illuminante.
Molto incisiva anche la parte della dedica iniziale dedicata alle generazioni di domani, alle quali l’autore augura di poter rubricare il libro non tra quelli di attualità bensì di storia, perché razzismo e discriminazione saranno ormai superati.
Il libro
Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.
L’autore
Federico Faloppa: professore di Linguistica e Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna. Da oltre venti anni la sua ricerca ruota intorno alla costruzione del “diverso” nelle lingue europee, alla rappresentazione mediatica delle minoranze, alla produzione e circolazione del discorso razzista e discriminante, al rapporto tra lingua e potere, ai discorsi d’odio.