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Dieci anni dalla scomparsa di Padre Paolo Dall’Oglio

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Se noi partiamo dalla consapevolezza che gli anniversari servono a chi resta, non a chi si ricorda, allora dovremmo domandarci a cosa serva ricordare che il 2023 segna il decennale dell’inghiottimento nel buio siriano di padre Paolo Dall’Oglio, romano, gesuita, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, in Siria, espulso dalla Siria nel 2012 dal regime di Bashar al-Assad e sequestrato a Raqqa dall’Isis il 29 luglio del 2013. Espulso da Assad e sequestrato dall’Isis, lo stesso destino toccato al popolo siriano, che è stato espulso dal suo Paese da Assad e alleati e sequestrato dai terroristi dell’Isis che hanno giustificato ai nostri occhi i carnefici che li hanno seviziati presentandoli come “male minore”. Dunque che decennale è? Il decennale del sequestro di un amico al quale volevamo bene e del quale purtroppo da allora non si è più saputo nulla? No. Il decennale di un testimone di un terribile passato? Neanche?

La storia di padre Paolo Sale’Oglio si capisce in tutta la sua valenza attuale, globale e politico-culturale solo ricordando la causa, profonda, della sua espulsione. Questa causa è riassunta da lui stesso nella lettera che osò inviare all’inviato speciale dell’Onu in Siria, Kofi Annan. Era il 23 maggio 2012:

“Ecc.mo Signor Kofi Annan, Segretario Generale emerito dell’Onu, Pace e bene. Con questa pubblica comunicazione vorrei esprimerle innanzi tutto gratitudine per aver accettato questo incarico delicatissimo per la salvezza della Siria e per la pace regionale. Ci aggrappiamo alla sua iniziativa come dei naufraghi a una zattera! Lei è riuscito a superare lo scoglio dell’opposizione russa a qualunque proposta che comportasse un autentico cambiamento democratico. In prospettiva, la Siria può e deve costituire un elemento di bilanciamento delle problematiche regionali e non un cancro corrosivo. Mi sembra che una maggioranza di siriani ragioni in termini di equilibrio multipolare e non in quelli d’una nuova guerra fredda. Il popolo siriano è tradizionalmente antimperialista, ma molto di più è a favore della creazione d’un polo arabo che ne rappresenti il diffuso desiderio di emancipazione e autodeterminazione. Un sentimento questo che implica l’aspirazione a vera democrazia e riconosciuta dignità delle componenti culturali e religiose di questa società e degli individui umani che la compongono. La dinamica regionale è marcata oggi da una difficoltà reale di convivenza tra popolazioni sciite e sunnite e di concorrenza tra esse. Ciò provoca anche grave disagio alle altre minoranze, innanzitutto quelle cristiane. La primavera araba, caratterizzata inizialmente dalla richiesta, specie giovanile, dei diritti e delle libertà, rischia la deriva confessionale violenta specie quando l’irresponsabilità internazionale favorisce la radicalizzazione del conflitto. Signor Annan, lei sa meglio di chiunque altro che il terrorismo internazionale islamista è uno dei mille rivoli dell’«illegalità-opacità»  globale (mercato di droga, armi, organi, individui umani, finanza, materie prime …). La palude interconnessa dei diversi «servizi segreti» è contigua alla galassia della malavita anche caratterizzata ideologicamente e/o religiosamente.  Meraviglia che pochissimi giorni siano bastati ad altissimi rappresentanti dell’Onu per accettare la tesi della matrice «qaedista» degli attentati «suicidi» in Siria. Una volta accettata mondialmente la tesi liberticida che in loco c’è solo un problema d’ordine pubblico, non rimane che aspettarsi il ritiro dei suoi caschi blu disarmati per lasciare alla repressione tutto lo spazio necessario a conseguire il «male minore». […] Tremila caschi blu e non trecento sono necessari a garantire il rispetto del cessate il fuoco e la protezione della popolazione civile dalla repressione per consentire una ripresa della vita sociale e economica. È urgente chiedere l’abolizione delle sanzioni non personalizzate che puniscono le parti più deboli e innocenti della popolazione. C’è inoltre bisogno di trentamila «accompagnatori» nonviolenti della società civile globale che vengano ad aiutare sul terreno l’avvio capillare della vita democratica. Si tratta di favorire un’organizzazione statale basata sul principio di sussidiarietà e del consenso, eventualmente favorendo quella struttura federale più corrispondente alle principali particolarità geografiche (la federazione è l’esatto contrario della spartizione!). Solo dando fiducia all’autodeterminazione delle popolazioni sul piano locale si potrà riportare l’ordine e combattere ogni forma di terrorismo senza ricadere nella repressione generalizzata e settaria. È opportuno e urgente creare delle commissioni locali di riconciliazione, protette dai caschi blu e in coordinazione con le agenzie Onu specializzate, anche in vista della ricerca dei detenuti, rapiti e scomparsi delle diverse parti in conflitto. Sarà anche necessario porre al più presto la questione della riabilitazione civile dei giovani coinvolti in organizzazioni terroriste e malavitose. Lei ha ripetuto che per riappacificare occorre un processo politico negoziale. Ma si può immaginare questo senza un vero cambiamento nella struttura del potere, specie in una situazione come questa dove il governo è una facciata e anche il regime al potere obbedisce a un oscuro gruppo di supergerarchi? Bisogna salvare lo stato, certo. Esso è di proprietà del popolo. Ma prima è necessario liberarlo. […] La presenza disarmata dell’Onu oggi in Siria è una profezia gandhiana che vale ben oltre la crisi puntuale che si vuole così risolvere. La priorità sia allora quella di proteggere la libertà d’opinione e d’espressione della società civile siriana senza la quale è impossibile perseguire gli altri obiettivi essenziali alla pacificazione nazionale.”

Questo testo padre Paolo lo aveva con sé, sempre, fino al 29 luglio 2013, alle prime ore del mattino. E questo testo del 2012 ci parla del fallimento mondiale in Siria, della crisi profondissima in cui è sprofondata l’Onu, del fallimento del movimento pacifista, e della vittoria di quello che lui già allora aveva visto emergere come il grande protagonista, “la palude”. Perché oggi Siria e Libano siano due Stati falliti ma anche due narco-stati guidati dai nuovi Pablo Escobar del terzo millennio lo capiamo bene leggendo questo testo. E anche il cammino che ci ha condotto alla tragedia Ucraina emerge evidente, a pensarci bene.

La palude non è stata denunciata da altri, e così il terrorismo è diventato la giustificazione accettata o accettabile grazie alla teoria del “male minore”. Le tesi liberticide sono state avallate. I trentamila accompagnatori nonviolenti non si sono mai visti, la libertà d’opinione è andata in crisi sempre di più.

Ma padre Paolo dopo aver scritto questa lettera a Sua Eccellenza Kofi Annan ha proseguito il suo cammino, senza dubitare che la riconciliazione avrebbe un giorno potuto e dovuto diventare realtà. Perché è stata sempre e solo la riconciliazione la sua bussola.

La profezia di Dall’Oglio si chiama “denuncia del pantano” e mi piacerebbe che questo decennale fosse dedicato soprattutto a capire e approfondire la denuncia del pantano in tutta la sua portata epocale. La crisi della globalizzazione, i complottismi, le difficoltà di ogni pacifismo, il diffondersi del bellecismo, affondano nella non comprensione della “denuncia del pantano” che lui però ha sfidato, non solo denunciato, tornando in Siria, a Raqqa, ancora non capitale dell’Isis, per dire all’umanità in procinto di essere abbandonata al nichilismo che c’era qualcuno che l’amava sulla terra. Per questo è andato al quartier generale dell’Isis, per tentare di fermare la deriva e i suoi genocidi puntualmente giunti. Non andò da sognatore, da illuso, ma da persona consapevole. Come e in che termini lo abbiamo già detto altre volte, accennando al possibile incarico ricevuto dalla leadership di curdi iracheni.

Dunque dieci dopo Raqqa sarebbe il caso di cominciare a parlare di lui e delle sue rimosse lezioni, sul pantano, che non abbiamo visto nel nome del “male minore”, del federalismo che non abbiamo cercato per i casi complessi che abbiamo voluto semplificare nell’eterno gioco dei buoni e i cattivi, del pacifismo rintanato in un’ ideologia, mentre è una costruzione che passa attraverso la realtà, spesso drammatica e negata. C’è tutto questo nell’avvenimento del 20 luglio 2013, dieci anni fa. La lettera a Kofi Annan è solo una mappa tra le tante per capire e non seguitare a sbagliare. Lui è andato per la sua determinazione ad amare i suoi fratelli, qui, sulla terra! Questa grandezza negata dopo dieci anni può essere vista, capita, e portarci a vedere i motivi personali, le paure, la sete di scorciatoie per non vedere i pantani che ci hanno bendato e seguitano a farlo.


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