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Assange: quando la democrazia ha paura dell’informazione

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C’è un uomo che è imprigionato per aver detto la verità. Non in una dittatura, non in una autocrazia. In Europa, nell’occidente democratico, nella nobile Inghilterra. E nell’assordante silenzio dei media.
Sembra una storia di altri tempi, una storia di poteri occulti, imperscrutabili, arroganti, inclini al disprezzo del diritto. Una storia da noir distopico. E’ invece si svolge sotto i nostri occhi, è reale, produce sofferenza in un uomo e ingiustizia per tutti.
Dovrebbe essere gridata più che raccontata, mostrata in televisione, rivelata nelle scuole, discussa nei parlamenti. Dovrebbe offendere le nostre coscienze, suscitare la nostra indignazione.
E invece in pochi ne parlano, pochi forse la conoscono. La protesta è affidata ad organizzazioni che si battono per i diritti come Amnesty, a qualche volontario che si ostina a dimostrare per le strade d’Europa, o a Londra, ed è ostinatamente ignorata dai mezzi di informazione. Semplicemente non se ne parla. Nessun talk, nessuna prima o seconda serata, nessun servizio nei tg o nei gr. La strategia perfetta perché le persone non ne parlino, non prendano coscienza dei fatti e dell’ingiustizia che si consuma da lungo tempo. Che non sappiano che esiste Assange. E nemmeno che è rinchiuso in una cella minuscola, in attesa di un’estradizione verso gli Usa che, se concessa, lo porterebbe diritto verso una condanna ad un ergastolo più lungo della vita che gli resta da vivere, senza potersi davvero difendersi, senza nessuna realistica speranza di essere ascoltato. E creduto. Sempre che la salute lo sostenga, perché il regime cui è sottoposto la mina da tempo e non è dato sapere quali siano le sue reali condizioni.
Semplicemente: non deve parlare, non deve scrivere più. Nessuno deve più ascoltarlo.
Perché è proprio questo l’obiettivo: ridurlo al silenzio, renderlo inoffensivo, toglierlo di mezzo. Senza ucciderlo, almeno direttamente. In questo la democrazia occidentale si mostra meno spicciativa delle autocrazie e delle dittature. Ma per farlo ha bisogno del silenzio dei media. E che le persone, i cittadini occidentali, non sappiano. O magari, nelle poche occasioni in cui il nome di Assange esce miracolosamente in cronaca, siano adeguatamente istruiti sul fatto che è una “spia”.
Il silenzio imposto ad Assange e la mistificazione su ciò che ha fatto è la pena che deve scontare, senza alcun processo, per aver svelato attraverso documenti ufficiali ciò che non dovevamo sapere. Sulla guerra degli americani e dei loro alleati, sulle crudeltà inflitte a civili innocenti, sulla violazione dei più elementari diritti umani nella prigione di Guantanamo. E soprattutto su come si fa a convincere il mondo che una guerra è giusta, su come il potere inganna con l’uso della propaganda i suoi cittadini nella metà del mondo democratica. Fino a spiarli.
Tutto riportato in migliaia di documenti usciti dagli archivi grazie a uomini e donne che hanno avuto una crisi di coscienza maneggiandoli e, inorriditi, li hanno girati ad Assange che li ha resi disponibili girandoli a sua volta alle più importanti testate europee e statunitensi.
Ha informato, noi tutti, su cose che non avremmo dovuto sapere.
Finché non si comprenderà che l’accanimento su Assange è l’accanimento contro chi tenta di fare informazione liberamente per rendere più liberi i lettori, non si comprenderà nemmeno che la sua prigionia è una minaccia per l’intero mondo dell’informazione.

Riccardo Cucchi


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