Next Agcom. Il futuro dell’Italia digitale. Questo il titolo del numero speciale del periodico mensile Prima comunicazione uscito in questi giorni, che svolge un’interessante disamina dell’attività dell’Agcom nelle sue nozze d’argento. Va dato merito alla tenace direttora Alessandra Ravetta, con l’ausilio di collaboratrici e collaboratori, di aver predisposto un materiale così articolato.
Si tratta di un materiale utile per approfondire valori e limiti di un istituto nato sul finire del secolo scorso con la legge n. 249 del 1997.
Nelle ampie interviste – tra le altre- con il primo presidente Enzo Cheli, l’attuale Giacomo Lasorella e Nicola D’Angelo, che tra i diversi componenti dei collegi è quello presente già nell’elaborazione dell’impianto normativo originario, emerge un quadro di luci e di parecchie ombre.
In sintesi, le riflessioni, ancorché differenti, hanno un punto in comune : la fisionomia dell’istituzione merita una revisione, essendo mutato profondamente il panorama generale: nelle tecniche e nelle modalità di produzione e di consumo.
L’Autorità, si potrebbe aggiungere, nasceva quando era lecito sperare che un organo dotato di vaste funzioni -trasversali agli universi mediali e a quelli incipienti della rete- divenisse un tertium genus collocato fuori dalla stretta polarità di governo e parlamento. Il velocissimo evolversi del sistema, peraltro sempre più scandito da scelte sovranazionali a partire dalle direttive dell’Unione europea, esigeva la formazione di un’entità inedita. Dotata di poteri di indirizzo in quella che si chiamava la convergenza, nonché magistratura del settore e pure fonte di normazione secondaria, l’Agcom si poneva all’avanguardia del dibattito. Si era nel pieno delle liberalizzazioni e del conflitto televisivo. Vi erano apparati omologhi, a cominciare dalla gemella finlandese che il gruppo di lavoro estensore della bozza di testo presso il ministero delle comunicazioni prese ad esempio.
Va ricordato che le basi furono disegnate dalle numerose riunioni tenutesi nella precedente dodicesima legislatura della commissione ad hoc decisa dalla camera dei deputati, con Giorgio Napolitano presidente e Giorgio Bogi relatore.
La speranza, dunque, era piuttosto alta, vale a dire l’entrata in scena in Italia di un soggetto capace di ergersi a tutore della Costituzione, a contrastare oligopoli e concentrazioni, a facilitare l’introduzione di regole rigorose e insieme sufficientemente elastiche, per non ripercorrere gli itinerari tradizionali: lenti e pensati in età analogica.
L’affresco dipinto dalle citate interviste e da vari contributi raccolti nel prezioso lavoro di Prima non è molto positivo. Anzi.
Enzo Cheli ammette con sincerità che, mentre il campo delle telecomunicazioni era in una fase ascendente, il comparto televisivo rimase fuori dalle sentenze della Corte costituzionale sul pluralismo, anche per la vittoria alle elezioni politiche del 2001 di Silvio Berlusconi: l’epifania del conflitto di interessi, tema rimosso dal centrosinistra al governo. Peccato, però, che quell’autorevole consiliatura con alla testa un giurista di altissimo livello non abbia utilizzato le previsioni antitrust della legge n.249 (il tetto del 20% delle frequenze) per limitare a due il numero dei canali di proprietà di Fininvest-Mediaset, visto che undici erano le reti nazionali stabilite dal piano.
D’Angelo ricorda, invece, la triste vicenda della peggiore tra le privatizzazioni, che indebolì Telecom con esiti disastrosi. Bisognava fare cassa. Ora si piange.
Però, è la conversazione con Lasorella che maggiormente colpisce, perché sembra entrare nelle tragedie di oggi con il tono di una commedia leggera. Al di là delle colte riflessioni sulle novità europee e sulla necessità impellente di porre rimedio all’ondata alluvionale degli algoritmi e dei social, non appare per ora chiaro un programma concreto dell’Autorità. Ci si occupa di copyright o delle trasmissioni televisive del calcio per i buchi di connessione di Dazn. Il pallone è un dio pagano. Ma non è un po’ pochino?