BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Tutti i demoni e gli angeli del Messico

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Pioveva come nelle piaghe d’Egitto e a fine serata, in attesa che smettesse, mezza dozzina d’inviati di giornali e TV facevano tardi attorno a uno dei non molti tavoli di Reynaldo, dietro lo Zocalo di Acapulco. Davanti a loro resti di polpo bollito e aragoste alla brace, maionese e mais triturato: squisitezze dell’orgogliosa cucina di mare dello stato di Guerrero (che “cattura ogni palato”, avverte un cartello appeso all’ingresso della trattoria). Dietro, ormai lontanissimi da ogni conversazione, liquefatti nella memoria del giorno per giorno ma incancellabili dalla storia quegli “anni con Laura Diaz” raccontati da Carlos Fuentes. I tumulti politico-culturali del Messico di Frida Khalo, muralistas, poeti, cineasti, amori e avversioni irrevocabili, la piccozza stalinista che spaccò la testa di Leon Trotski. Poi i mille giovani di plaza Tlatelolco sterminati dal presidente Diaz Ordaz nel Sessantotto (sempre a tradimento). La feroce violenza che i messicani non riescono a strappare dal loro calendario.

Un femminicidio, un altro dei tanti che implacabili si susseguono, è l’ultima notizia che aveva riunito quei professionisti dell’informazione, vite più che mai a rischio anche le loro. L’incontro precedente era stato per l’assassinio di un collega ben conosciuto da tutti i presenti: il diciottesimo del 2022, che aveva portato a 178 quelli degli ultimi vent’anni. Bilanci lugubri, da aggiornare con sempre maggiore frequenza. A uno dei commensali, corrispondente della CNN, tempo prima, era sembrato un buon investimento per la pensione l’acquisto di un petit hotel a Punta Diamante, qualche chilometro più a sud. Il turismo, malgrado tutto, tirava. Ma raccontava di aver dovuto disfarsene in fretta perdendo quasi l’intero capitale, perché la malavita del posto glielo aveva incendiato la sera prima dell’inaugurazione. Il Messico, adesso, non è certo riassumibile in alcuni pur tragici episodi. Tanto meno è l’unico paese a doversi misurare con corruzione e brutalità diffuse e radicate (in Italia, per dire, in quel che va del 2022 sono state massacrate 81 donne). Resta che il loro ripetersi, moltiplicandosi negli anni, ancora quasi tutti gli ultimi quaranta, impone di osservare innanzitutto la condizione quotidiana della gente comune (la stragrande maggioranza dei 130 milioni di abitanti, attuali eredi di una vita umana che in quel territorio tra i più vasti del nostro pianeta i paleontologi datano a 11mila anni addietro). Negli isolati casolari del Messico rurale in cui vivono 25 milioni di persone, negli agglomerati minori che ne ospitano altrettanti, nelle curve e dietro gli angoli delle sue città sovrappopolate, caotiche, allarmanti; prima che nei monumentali palazzi del potere e tra i numeri possenti di un’economia industrializzata, in Latinoamerica seconda solo al Brasile. In una storia i cui molteplici incroci etnici, le innumerevoli diversità culturali che ne sono conseguite (68 lingue diverse ufficialmente riconosciute), sviluppandosi su una magnifica e sterminata geografia hanno dato luogo a una realtà grandiosa che metabolizza in uguale misura glorie e infamità, creatività e lutti. Il messicano comune ha una cosmovisione in cui convive permanentemente con la morte, la blandisce e ne alimenta il suo spirito, la celebra per non dimenticarla e così difendersene, mi ha riassunto una volta la scrittrice Elena Poniatowska, per acutezza ed esperienza incomparabile testimone dell’ultimo mezzo secolo. Preceduta e confortata da Juan Rulfo, nel cui magistrale “Pedro Paramo” nefandezze e soprusi, una morte sempre incombente, sono il contesto in cui la grande proprietà terriera ha dato origine allo stato messicano.  Restiamo nel Guerrero (al pari degli USA -suo amato/odiato confinante-, il Messico è una Repubblica democratica presidenziale che federa 23 stati negli Estados Unidos Mexicanos ). A separarlo dalla capitale nazionale, la megalopoli Città del Messico, c’è solo il contiguo Morelos, che diede i natali al massimo eroe della Revolución (1910), Emiliano Zapata; ma oltre un secolo dopo non vede ancora attuata la riforma agraria auspicata dal suo famoso Plan de Ayala. In cambio sopporta l’oppressione di una delinquenza che ricatta, sequestra, uccide. In parte proliferazione di quella dei grandi cartelli del narcotraffico installati molto più a nord, lungo i 3.169 chilometri della frontiera con gli Stati Uniti. Di origine locale, ma a quelli direttamente subordinata per il resto. Vittime predestinate, oltre ai singoli cittadini, le piccole e medie imprese, che costituiscono il 90 per cento del sistema produttivo nazionale, tanto per capacità di occupazione quanto per il PIL (che l’anno scorso ha sommato circa 1.300 miliardi di dollari). Acapulco, spiagge similoro e mare azzurro cristallino: chi non ha visto una foto almeno, dei giovani ardimentosi che dai 25 metri delle rocce a strapiombo sull’acqua volano giù come angeli a capofitto per intrattenere i turisti? Nel secondo Novecento la United aveva un volo quotidiano da Los Angeles, riservato ai divi di Hollywood che andavano ad affollarvi alberghi, casinò e cabaret extra-lusso: Gary Cooper, Ava Gardner, Marilyn Monroe, Burt Lancaster… Gli attuali valori immobiliari sono depressi, i commerci più lucrosi chiusi. Gli ospiti prevalentemente locali o delle regioni vicine. La sera appena le strade centrali sono animate. E’ la sesta città del paese nella graduatoria degli omicidi che vi si compiono: l’anno scorso, oltre un migliaio. Vi sono state applicate misure senza precedenti. Il governo nazionale ha accusato di complicità con il crimine e ordinato lo scioglimento dell’intero corpo di polizia della Provincia, disarmato dall’Esercito con una vera e propria operazione di guerra.  Neppure le Forze Armate, però, pur costituendo la spina dorsale del sistema di sicurezza nazionale e concentrando un potere crescente che ormai genera inquietudini e polemiche, sono al riparo da pesanti sospetti di connivenza con il crimine. Il 26 settembre 2014, nel Guerrero settentrionale, a Iguala, è stata compiuta una nuova strage. Per fermare tre autobus di studenti delle medie-superiori provenienti dalla vicina Ayotzinapa, che giravano la provincia per raccogliere fondi volontari da destinare alle loro attività culturali (e -inevitabilmente- anche politiche), la polizia ha ucciso 6 ragazzi, ferendone una decina. Poche ore più tardi ne ha sequestrati altri 43, poi tutti assassinati e fatti scomparire in roghi appositamente allestiti in una discarica dai “Guerreros Unidos”, un gruppo paramilitare di cui si serve la polizia. In 8 anni la giustizia non ha ancora completato le varie inchieste che si sono succedute senza mai concludersi; e la ricerca di tutti i responsabili dell’eccidio anima ora una guerriglia politico-giudiziaria senza quartiere. Quel turpe massacro ha precipitato sul Messico l’ombra di un terrorismo di stato che di fatto connette estese e radicate illegalità a una delirante furia di morte, sintomi diversi per origine ma tutti riconducibili alla medesima malattia: l’infeudamento della Repubblica a un potere di parte. L’allora presidente della Repubblica Enrique Peña Netto vi ha aggiunto una inerzia che di fatto costituisce correità. Diventando così il massimo ed ultimo esponente del cinismo corporativo generato dai molti decenni di para-totalitarismo politico del suo Partido Revolucionario Institucional (PRI). Che sequestrando pletoricamente già nel nome la storica tradizione sociale e indipendentista della parte più avanzata e dinamica del paese, al fine di volersene impossessare per sempre lo ha infettato a fondo. Contagiando nel tempo la stessa civiltà di un paese tra i più antichi della Terra, il primo nella modernità occidentale ad affrontare con una prolungata e sanguinosa rivoluzione (campagna contro città), strettoie e contraddizioni della lotta tra summum malum e summun bonum, onnipotenza e disillusioni. Otto anni di indagini, menzogne palesi, confessione d’indicibili orrori nella speranza di attenuanti o per coinvolgere altri al fine di sminuire responsabilità ormai innegabili, smentite, scandali fragorosi per inchieste lasciate a metà, ordini dimenticati, provvedimenti finiti sepolti nei cassetti della burocrazia giudiziaria, hanno coinvolto 3 generali e numerosi altri militari. Gli ultimi 4, incarcerati nelle settimane scorse, accusano di parzialità nelle indagini il presidente della Commissione per la Verità, Alejandro Encinas, sottosegretario del governo per la difesa dei Diritti Umani. Lui si difende attaccandoli a spada tratta:”I miei accusatori fanno parte di coloro i quali d’intesa con altre autorità dello stato e la criminalità organizzata, hanno sequestrato e fatto poi scomparire i 43 studenti di Ayotzinapa. Dietro di loro ci sono quelli che vorrebbero lasciare impunito un simile delitto” (La Jornada, 10.10.22). L’attuale capo dello stato, Andrès Manuel Lopez Obrador, che con il grande successo elettorale di 4 anni addietro ha posto fine allo strapotere del PRI, lo sostiene apertamente. AMLO, come lo chiamano molti messicani ricorrendo al suo acronimo senza che lui se ne dispiaccia, ha inserito la tragedia degli studenti nel proprio arsenale politico. Familiari e amici degli scomparsi gliene sono esplicitamente grati, senza tuttavia diventarne aperti sostenitori. Esprimono un sentimento diffuso nel paese, che al compimento del quarto anno dei previsti 6 di governo e nella prospettiva di un eventuale secondo mandato, stando ai sondaggi si divide grosso modo in due metà, una a favore e l’altra contraria alla rielezione. Non si tratta, però, di sinistra contro destra, poiché parte dell’una così come dell’altra appaiono a loro volta divise in segmenti contrapposti al momento di valutarne la politica condotta fino a oggi. Sebbene a salvo da accuse di profitti personali e gravi scandali, con un ancor alto grado di popolarità, il presidente risulta dunque un personaggio controverso. E’ il prezzo che paga alla sua volontà riformatrice non meno che per l’insistente protagonismo, per la risolutezza del temperamento che tende al decisionismo e suscita sospetti d’intenzioni autoritarie. Gli avversari vi scorgono una riprova del proposito di stravolgere a fini personali il sistema elettorale, a cominciare dall’autorità che lo presiede: l’Instituto Nacional Electoral (INE). Ridurre il Congresso da 500 a 300 deputati e da 132 a 96 senatori; dimezzando contemporaneamente il costo del finanziamento pubblico ai 10 partiti nazionali esistenti, che quest’anno somma 103mila milioni di euro, tra i più onerosi del mondo. C’è qualche malumore persino nel suo stesso Movimiento Renovación Nacional (MORENA), che per essere il più votato (60 per cento all’ultima consultazione) ne percepirà la quota maggiore. Per bloccare il progetto, l’opposizione conservatrice del Partido Acciòn Nacional (PAN), del Partido Revolucionario Institucional (PRI) e del Partido de la Revolución Democratica (PRD) stanno facendo barricate in Parlamento e nelle piazze. Senza dubbio sensibile alla questione sociale, Lopez Obrador è un nazional-populista di sinistra che nondimeno spinge la spesa pubblica più sul versante degli investimenti che su quello della redistribuzione ed evita un’adeguata progressività del prelievo fiscale. Tanto da indurre nel luglio 2019 alle dimissioni il ministro delle Finanze, Carlos Urzùa, che non ne condivideva la linea di austerità perché ulteriormente punitiva dei ceti meno abbienti. E giustificata invece dalla nuova ministra dell’Economia, Raquel Buenrostro, in quanto utile contro l’inflazione che lei ha in effetti combattuto con buon esito. Dopo i due anni della crisi provocata dal Covid ha ridotto anche la disoccupazione: sotto il 4 per cento (dato tuttavia relativizzato dall’alto tasso del lavoro informale). Qualche risultato c’è, ammette Urzúa: non tale però da modificare le condizioni di vita di quel 44 per cento della popolazione che sta al di sotto della soglia di povertà, di cui l’8,6 per cento in miseria. Parliamo della quindicesima economia mondiale, con quella brasiliana la partner di maggiore rilevanza per l’Italia in America Latina. A dichiararsene pubblicamente soddisfatto, più dello stesso Lopez Obrador, è il simbolo del capitalismo messicano, Carlos Slim, 82 anni, un ingegnere d’origine sirio-libanese proclamato dalla rivista Forbes la persona più ricca del mondo. L’elenco delle sue imprese e partecipazioni finanziarie da Wall-street alla City londinese abbraccia tutte le più lucrose attività produttive. Controlla il 74 per cento delle telecomunicazioni dell’America Latina, è il terzo azionista del New York Times, siede nei consigli di amministrazione della Apple, di banche internazionali, di catene di ristoranti, di firme del Lusso. Dice:“In questo momento la buona salute finanziaria del Messico permette di trarre profitto dalle tensioni tra Pechino e Washington, stiamo rilanciando in grande commerci e produzione petrolifera. Se abbiamo problemi, sono politici”. Quelli internazionali sono complessi e riguardano essenzialmente i rapporti con gli Stati Uniti.  Anche se l’esito delle elezioni di mezzo termine che ha rafforzato la presidenza di Joe Biden li pone a questo punto in una cornice meno rigida. Revisione e sviluppo del Trattato di Libero Commercio (T-MEC), sono già all’attenzione delle rispettive Cancellerie. Per la drammatica questione migratoria, assillo permanente d’ogni governo a Città del Messico, c’è la possibilità che la controparte decida per una nuova flessibilità. I cittadini americani di origine messicana (3 milioni e mezzo di elettori) avrebbero votato maggioritariamente per i democratici, favorendo quindi la loro vittoria anche in tutti gli stati della fascia di frontiera, ad eccezione del Texas, roccaforte repubblicana. Gli altri governatori dovrebbero quindi aver interesse a favorire la richiesta di mano d’opera rivolta loro dagli imprenditori dei rispettivi sistemi produttivi e accompagnare le auspicate iniziative della Casa Bianca per una politica di più ampia accoglienza.  Il vero punctum dolens è però interno, piantato nel cuore del paese. E fa agitare non solo l’opposizione della destra liberale. L’inquietudine serpeggia anche nella base elettorale di MORENA, alzano la voce alcuni suoi dirigenti, in dissenso dal loro leader senza avere però la forza d’imporgli un dibattito, contrastarne l’iniziativa. Le prerogative presidenziali sono soverchianti. Si tratta del recentissimo decreto che prolunga fino al 2028, tra l’altro ben oltre il mandato di AMLO, le funzioni di polizia affidate alle Forze Armate. I cui massimi comandi già si reggono su un sistema gerarchico sostanzialmente autonomo dalle istituzioni civili e amministrano deleghe di tale varietà e ampiezza da farne un centro di potere incontrollato. Amministrano infatti strade, ferrovie, aeroporti costruiti da loro imprese, una banca popolare con 1200 filiali in tutto il paese, vigilano frontiere e dogane terrestri e marittime, riscuotono imposte, forniscono la sicurezza personale del capo dello Stato. Lopez Obrador non è l’unico responsabile di questa clamorosa aberrazione, né manca di argomenti per giustificare la parte che gli corrisponde. La polizia civile non può essere considerata affidabile e comunque il contrasto al narcotraffico e alla criminalità organizzata richiede mezzi e competenze posseduti soltanto dalle Forze Armate. Del resto fin dal 1946, Miguel Alemán, il primo presidente civile dalla Revolución, ha pattuito la sostanziale autogestione del potere militare (a cominciare dalle retribuzioni mensili dei suoi ufficiali) in cambio della neutralità politica. E quando non molto tempo addietro alcuni hackers hanno rivelato che lo spionaggio militare schedava politici e personalità di spicco della società messicana, archiviandone dati e abitudini personali anche intimi, nessuno se n’è davvero sorpreso. L’unico rimedio è stata l’istituzione di una commissione parlamentare interpartitica che due volte l’anno verificherà l’operato dei servizi segreti militari. Se l’aristocratico Von Bismarck ha ammesso che la politica “è l’arte del possibile”; a Lopez Obrador, figlio di piccoli commercianti, possiamo attribuire il pensiero che sia ancor più  semplicemente “la scelta del minore dei mali”.

 


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