Angelo Schiavone, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò e Giuseppe De Masi: questi i loro nomi. Tre di loro avevano appena ventisei anni nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, quando il rogo che si sviluppò alla ThyssenKrupp di Torino travolse le loro vite e ne causò una fine atroce. Quindici anni dopo ci ritroviamo qui a versare lacrime inutili, a soffrire come non mai e a fare la conta dei morti sul lavoro, piaga che ormai viene derubricata alla voce “incidenti”, come se fosse normale o degno di un paese civile sapere che ci sono persone che ogni giorno escono di casa e non sanno se vi faranno rientro. Il punto è che a morire sono quasi sempre gli ultimi, i più deboli, la classe operaia, i dannati della globalizzazione, i poveri cristi che cadono dai ponteggi o vengono investiti dalle fiamme, stritolati dai macchinari o schiacciati dalle putrelle d’acciaio; in poche parole, coloro che sono “destinati a perdere”, inghiottiti dalla brama di potere e denaro di un padronato sempre più avido e privo di scrupoli.
La ThyssenKrupp, dunque, non va letta come una vicenda a sé stante e neanche come una semplice tragedia. La ThyssenKrupp è l’emblema di una scelta, quella del capitalismo mondiale, e di un desiderio di arricchimento che viene prima di tutto e va oltre tutto. Lo stiamo vedendo in questi giorni ai Mondiali in Qatar, con le timidissime riflessioni a margine dell’evento sportivo, senza che venga quasi mai posto l’accento sul numero spropositato di disperati che hanno perso la vita nella costruzione degli stadi. Ma non illudiamoci che in Italia il discorso sia diverso. Le stragi sul lavoro non hanno nulla di bianco, colore che di per sé lascia intendere luce e pulizia. La barbarie che si consuma sotto i nostri sguardi indifferenti, e ahinoi assuefatti al peggio, è, al contrario, rossa come il sangue delle vittime e grigia come la visione del mondo dei burocrati che muovono le leve nell’ombra, con i loro abiti di alta sartoria, le loro lauree all’estero, il loro parlare fluentemente varie lingue e il loro assoluto disprezzo nei confronti dei propri dipendenti. Siamo al cospetto di quella che Hannah Arendt avrebbe definito “la banalità del male”: un legame sottile che unisce le diverse mattanze e restituisce il senso a ciascuna di esse, spiegandole alla luce di un modello di sviluppo dissennato e iniquo.
Quindici anni dopo gli unici a ricordare davvero quelle vittime saranno i loro familiari e, vogliamo illuderci, qualche intellettuale e qualche politico di minoranza che non si è ancora rassegnato alle “magnifiche sorti e progressice” del liberismo selvaggio. Gli altri, al massimo, si lasceranno andare a un’esibizione di ipocrisia, di incontinenza verbale prossima alla violenza, con le loro frasi fatte, i loro luoghi comuni e la loro assoluta mancanza di rispetto nei confronti di ragazzi e uomini che se ne sono andati in maniera tremenda, in alcuni casi dopo giorni e giorni d’agonia, e non sarebbe accettabile limitarsi a parlare di incidente. Se tutto ciò è accaduto è perché lavoravano in condizioni difficili: verrebbe voglia di utilizzare altri aggettivi ma ci fermiamo qui. Almeno noi, infatti, vogliamo rispettarli fino in fondo, evitare di trascinarli in polemiche inutili e dannose, esprimere solidarietà e cordoglio ai loro cari, mandare un abbraccio sincero e sentito ad Antonio Bocuzzi, l’unico di loro a essersi salvato, e assumerci l’impegno di continuare a lottare al fianco dei vivi. Perché onorare i morti è giusto, anzi doveroso, ma non basta. Se il nostro lavoro diventa un costante “coccodrillo”, infatti, finisce implicitamente col fare il gioco di quanti ci mettono una pietra sopra e passano oltre. Al massimo, qualcuno poi si farà un pianterello, magari ci sarà una cerimonia, qualche intitolazione, una corona di fiori, due articoli e i manovratori l’avranno fatta franca ancora una volta. Ecco, no: il nostro intento è far sì che il tema del lavoro venga posto al centro di ogni dibattito e discorso, che la politica se ne faccia carico, che l’informazione ne parli anche in assenza di tragedie, che il “mai più” non sia solo una formula retorica e che la memoria di quegli operai sia custodita gelosamente. Solo se accadrà tutto questo, e sta a noi far sì che ciò avvenga, forse d’ora in poi potranno avere pace.
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