Sulla costa della Gran Bretagna, in un cottage qualunque, in una cucina qualunque (ambientazione dell’intero atto unico nel rispetto dell’unità di luogo, tempo e azione), irrompe col naso sanguinante Rose, vecchia amica e collega dei coniugi Hazel e Robin, due fisici nucleari che pur se in pensione continuano a vivere vicino alla centrale nucleare in una apparente normalità, dopo uno tsunami provocato da un grave incidente agli impianti, che oltre a devastarlo ha reso il territorio radioattivo. La donna è stata colpita proprio da Hazel, spaventata e colta di sorpresa dal suo arrivo. La credevano morta. L’incipit porta già i segni di un conflitto drammatico/grottesco, tra yoga salvifici e radiazioni venefiche, tra figli ancora dipendenti psicologicamente e attenzione ossessiva al cibo e allo smaltimento dei rifiuti, che si complica vieppiù all’arrivo di Robin che in passato ha avuto una relazione con Rose, una delle sue tante relazioni extra coniugali. Le ammiccanti complicazioni amorose rivelano la fragilità di una coppia apparentemente affiatata, che sfocia nei toni del dramma e del paradosso quando Rose rivela la vera ragione della sua visita: ha deciso di ritornare a lavorare alla centrale per sostituire i colleghi giovani, con famiglia, che hanno più diritto alla vita di lei, anziana e già malata, e chiede alla coppia di fare altrettanto. La conversazione a questo punto esplode in reazioni divergenti, riservandoci un finale aperto che firma le decisioni dei tre anziani amici, suggerendo discutibili soluzioni possibili a un sistema difettoso, pieno di rischi e conseguenze drammatiche. Il benessere effimero, vite segnate dai disastri di un apparato foriero di malattie e morte, un disagio costante e latente sul fronte relazionale e generazionale, il tutto trattato con humour, sono gli inquietanti punti interrogativi di una commedia che affonda la sua lama sorridente nel tessuto di una società malata ricca di contraddizioni a cui si vuole dare fiato e visibilità, in un concentrato inesorabile di problemi irrisolti.
Le tematiche scottanti, i dialoghi serrati e intrisi di suspense, la regia naturalistica di Andrea Chiodi, asciutta e scorrevole, l’eccellenza degli interpreti, una sempre corposa Elisabetta Pozzi, la contraddittoria Hazel che tiene faticosamente in piedi un’apparente routine, un calzante Giovanni Crippa nel ruolo dello spavaldo e fragile Robin, una duttile Francesca Ciocchetti alle prese con l’ambigua Rose, hanno dato vita a una intensa pièce dai ritmi coesi, trattata con ironia misurata, contemporanea e classica nell’impostazione drammaturgica e scenica.
Ben orchestrati, i dialoghi serrati, tranquilli in superficie, in realtà si rivelano ricchi di suspense, incuneandosi nelle situazioni di un banale quotidiano dove il dramma si affaccia costantemente, mentre irrompe con il suo alone mortifero il fantasma della centrale nucleare vicina, foriera di morte e di imbarazzanti questioni etiche. Il diritto alla vita, a qualsiasi età, si affaccia molesto a ricordarci che non è semplice demandare al singolo i problemi di un sistema poco rassicurante.
Crudele e soft la Kirkwood affronta nodi esistenziali del nostro tempo con la freschezza di uno sguardo giovane, ma lucido e disincantato, che si affaccia a denunciare, a provocare, a sottolineare le ombre della nostra difficile condizione storica e umana.
The Children
di Lucy Kirkwood
traduzione di Monica Capuani
Regia di Andrea Chiodi
Con Elisabetta Pozzi, Giovanni Crippa, Francesca Ciocchetti
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Cesare Agoni
Musiche Daniele D’Angelo
Produzione Centro Teatrale Bresciano
Al Teatro Angelo Musco di Catania