Milano, metro lilla. È l’ora di punta, quella in cui la maggior parte dei milanesi si riversa in metropolitana per tornare a casa dopo un’intensa giornata di lavoro. È anche il periodo prenatalizio e i vagoni della metro sono colmi tanto di persone quanto di sacchetti e di nastri colorati. Scendo alla fermata, oltrepasso i tornelli e scorgo davanti a me un gruppo di persone intente a ballare e cantare a ritmo di musica intorno a dei musicisti di strada. Per un attimo sono immensamente felice, e inizio a piangere.
Majidreza Rahnavard aveva 23 anni quando è stato arrestato dalla polizia iraniana perché aveva manifestato in piazza contro il Regime. Sul braccio sinistro aveva tatuato un sole e un leone, simbolo della bandiera iraniana prima della Rivoluzione Khomeinista del ‘78. Dopo 23 giorni dal suo arresto, Majidreza è stato condannato a morte ed impiccato, e il suo corpo lasciato penzolare su una gru come segno di avvertimento per chiunque volesse seguire il suo esempio. Aveva il braccio sinistro rotto e tumefatto. Poco prima di giustiziarlo, gli hanno chiesto quale fosse il suo ultimo desiderio e Majidreza non ha esitato nel rispondere: “Non leggete il Corano (*), ma ascoltate musica allegra e festeggiate”.
Milano, metro lilla. Sto tornando a casa e, come quasi ogni giorno da cento giorni, leggo le notizie di cronaca sulle proteste violente che si stanno svolgendo in Iran, il mio paese, la mia terra di origine. Scendo alla fermata, oltrepasso i tornelli e scorgo un gruppo di persone intente a ballare ed ascoltare musica allegra e festeggiare. Allora penso che l’ultimo desiderio di Majidreza si è finalmente avverato, ma lui non sarà lì a gioirne con noi. Per un attimo sono immensamente felice, e inizio a piangere.
Quando ancora vivevo in Iran, ci sono state diverse occasioni in cui ho avuto paura per la mia incolumità perché colpevole di essere donna e aver indossato i vestiti in maniera inappropriata. In Iran, infatti, se sei donna e i tuoi vestiti non sono abbastanza larghi e il velo non è abbastanza coprente, il rischio che la polizia morale ti fermi per strada e ti porti in commissariato è molto alto. Nel migliore dei casi, sei interrogata per qualche ora e sei costretta a firmare un documento ufficiale in cui dichiari di esserti pentita e assicuri al Regime che non ripeterai più le azioni negligenti che hanno portato al tuo arresto. Nel peggiore dei casi, sei torturata e stuprata.
Masha Amini aveva 20 anni quando è stata arrestata dalla polizia morale mentre camminava per le strade di Teheran perché non indossava correttamente l’hijab. Masha era originaria del Kurdistan e il 13 settembre era in vacanza con la sua famiglia in Iran. Dopo tre giorni dal suo arresto e due di terapia intensiva, è morta nell’ospedale di Kasra. Da quel momento in poi, le strade dell’Iran non sono più state le stesse. È cominciata la nostra Rivoluzione.
Vivo in Italia da dieci anni, ma la sensazione di inappropriatezza per i vestiti che indosso quando passo davanti ai poliziotti, non è mai scemata. Anche io, come Masha, i primi tempi ero una ragazza straniera in visita in un paese straniero. Ma io, al contrario di Masha, non ho pagato con la vita per i vestiti che indossavo per le strade di Milano. Nel peggiore dei casi, se sei in visita in Iran e sei donna, muori per i vestiti che indossi. Nel migliore dei casi, ti arrestano e ti liberano a seguito di una firma su un documento ufficiale in cui ti penti davanti al Regime. Ma l’ingiustizia perpetrata giornalmente non rende liberi, neanche quando vivi in Italia da dieci anni.
Da quando è iniziata la nostra Rivoluzione, mi sono domandata spesso cosa avrei potuto fare per il mio paese da lontano. Vivere in Europa non mi impedisce di aiutare la mia famiglia, i miei amici, la mia gente. È per questo motivo che ogni giorno, da più di cento giorni, ho iniziato a postare sui social – specialmente su Instagram – le storie delle ragazze e dei ragazzi che quotidianamente rischiano la vita scendendo in piazza e che lottano per un Iran libero e sicuro.
Kian Pirfalak aveva 8 anni quando è stato ucciso dalla polizia iraniana mentre era in macchina con i suoi genitori e suo fratello. Stavano tornando a casa quando la polizia ha iniziato a sparare. Kian è morto sul colpo, suo padre è stato ferito. Qualche giorno prima, Kian aveva costruito una barca per un progetto scolastico e l’aveva presentata davanti a tutta la classe “in nome del Dio Arcobaleno”. Da allora, Kian è conosciuto come il “bambino arcobaleno” ed è diventato un simbolo importante della nostra Rivoluzione. Una delle vittime più giovani del Regime e purtroppo non l’unica.
Da quanto è iniziata la nostra Rivoluzione, i miei amici qui in Italia mi chiedono spesso cosa possano fare per il mio paese da lontano. E la mia risposta è sempre la stessa: parlatene, condividete, informate. Scrivete sui vostri social, parlatene con i vostri amici e con la vostra famiglia, scendente in piazza se potete. Date voce qui in Italia, in Europa e in generale all’estero a chi urla da lontano. Per non far morire la nostra Rivoluzione, è importante parlarne, così che le vite delle vittime del Regime non siano sacrificate invano. Majidreza, Masha e Kian hanno ancora bisogno di essere ascoltati.
Una ragazza e un ragazzo postano un video su TikTok: stanno ballando sotto la Torre di Azadi (in persiano, letteralmente, la Torre della Libertà), mano nella mano, entrambi in jeans e maglietta, i capelli sciolti e lunghissimi di lei. Ridono, si abbracciano. Potrebbero essere ovunque nel mondo e invece sono proprio a Teheran, il centro nevralgico delle proteste.
Quello che altrove è una giornata normale per due ragazzi, qui in Iran diventa un atto meravigliosamente rivoluzionario.
(*) In Iran, quando qualcuno muore, viene letto il Corano, sia in punto di seppellimento, sia successivamente.
L’autrice di questo articolo usa, per motivi di sicurezza, lo pseudonimo Nazanin B. e ha appena pubblicato il libro “Questo dolore che vive con me. La nostra vita rubata dal governo in Iran” per Dissensi editore.