Ci occcupiamo di arte, cultura e meraviglia nel momento in cui ne avvertiamo maggiormente il bisogno. Lo facciamo di fronte agli orrori che giungono dall’Iran, dove ragazzi di vent’anni vengono pubblicamente impiccati per la sola colpa di aver manifestato contro un regime oscurantista e barbaro, ormai prossimo al collasso. Lo facciamo mentre nelle piazze si grida uno slogan che costituisce il ritratto di un’epoca, molto più di un manifesto politico: un insieme di valori destinato a innervare un progetto globale di ribellione e riscatto che potrebbe modificare in maniera decisiva gli equilibri internazionali. O almeno a noi piace immaginare che possa andare così: una sorta di rivoluzione francese contemporanea, con i principî di “donna, vita, libertà” al posto della celebre triade del 1789, quando la libertà era accompagnata dall’uguaglianza e dalla fratellanza. Eppure, ci piace ancora di più questo motto planetario del 2022, proprio perché si sono aggiunte le donne, con un protagonismo mai avuto prima nel corso della storia, e la vita, di cui troppo spesso ci siamo dimenticati e che, invece, si è ripresa la scena, brillando negli occhi di una generazione che ne avrebbe ancora tanta davanti a sé ma è disposta persino a sacrificarla in nome di un ideale superiore di giustizia. Qualcuno si starà chiedendo cosa c’entri tutto questo con un film e con un libro. C’entra eccome, invece, perché le biografie hanno un ruolo e un’importanza e Daniele Vicari e Maurizio De Giovanni non sono due persone qualsiasi.
Quando ho letto la notizia che le milizie iraniane puntano a sfregiare le donne, ad esempio, mi è tornata subito in mente la bellezza di Jennifer Ulrich calpestata in “Diaz”, allegoria di un’altra generazione umiliata e massacrata, per giunta nel nostro Paese, simbolo universale della lotta contro ogni barbarie in nome dei diritti fondamentali di ciascun essere umano. Vicari è questo, e si conferma tale anche in “Orlando”, una favola colma d’amore e malinconia, ricchissima di principî, imperniata sulla condivisione e sull’ascolto. Grazie a un Michele Placido in stato di grazia, nel ruolo di un anziano contadino della Sabina, Orlando per l’appunto, costretto a recarsi a Bruxelles per prendersi cura della nipotina rimasta orfana, e per merito di Angelica Kazankova, giovanissima attrice destinata, ci auguriamo, a un luminoso futuro, mette in scena una storia che ne contiene tante. Diciamo che è un antidoto al male, ai muri, agli stereotipi, ai pregiudizi, un grido nel cuore di una società squassata dall’egoismo e dalla mancanza di affetto, resa dalla pandemia ancora più solitaria e, a tratti, cinica.
Nel dialogo fra due generazioni che più diverse non si potrebbe è racchiusa la magia dell’incontro, la forza del confronto fra mondi paralleli, universi apparentemente inconciliabili, storie che si intrecciano e vite che sono costrette a venire in contatto, fino a scoprire la ricchezza l’una dell’altra, nel trionfo di una diversità che, in questo caso, unisce e accomuna. Non è la prima volta che il cinema di Vicari si pone in contrasto con le storture della società contemporanea, con i suoi dogmi e la sua dilagante volgarità. Diciamo, anzi, che è una costante della sua attività artistica: la denuncia, la battaglia contro le ingiustizie, il desiderio di riscossa di chi ha avuto poco o nulla dall’esistenza o ha subito soprusi e ingiustizie talvolta difficili persino da descrivere. Lui ci riesce, assai meglio di altri, anche perché i suoi film si basano spesso sui silenzi, su un gioco di sguardi, di abbracci, di parole appena sussurrate, di inquadrature basate su primi piani intensi che dicono tutto e, infine, sulla comprensione della fragilità umana in una stagione nella quale si tende a non ammettere alcuna imperfezione.
A pensarci bene, sono i temi cari anche a De Giovanni, che nella saga del commissario Ricciardi dà il meglio di sé e nell’ultimo episodio, “Caminito”, ispirato al titolo di un celebre Tango argentino, esprime fino in fondo i propri sentimenti. Il nuovo episodio si ambienta nel 1939, alla vigilia del baratro, quando ormai la catastrofe è a un passo, e Ricciardi si interroga sul destino di sua figlia Marta, nel tentativo di scoprire se ha ereditato la sua dannazione di vedere e sentire i morti. Oltretutto, il nostro deve risolvere il caso di due giovani ritrovati fra i cespugli di un bosco, assassinati mentre stavano facendo l’amore. In un inteeccio perverso di furia crescente, incertezza dilagante, paura e politica tossica, si snoda l’ennesima vicenda di un personaggio in cui lo scrittore napoletano riversa per intero la propria passione civile, il proprio desiderio di impegnarsi attivamente all’interno della società e il proprio rifiuto di ogni forma di dittatura.
E il cerchio si chiude, fra le note del Tango, un viaggio a Bruxelles alla ricerca di tutto ciò che si era sempre rifiutato di conoscere e di capire e un mondo che non concepisce più il rispetto per il prossimo e la dignità della persona come valori essenziali. Finché ci saranno personalità come Vicari e De Giovanni, tuttavia, almeno noi ci crederemo ancora. Forse saremo ingenui, ma non ci rassegneremo mai all’idea che non esistano alternative all’orrore nel quale siamo intrappolati. E se anche fosse, continueremmo comunque a cercarle.
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