Come si invita alla lettura di un libro che è “irriassumibile” e che è scritto da un autore caustico e irrimediabilmente non simpatico? Forse dichiarando da subito che Works è un libro sorprendente, scritto in maniera straordinaria, irriverente eppure umile, che mischia insieme l’ingovernabilità sintattica e la più totale mancanza di retorica nei confronti di quello che in Veneto è un fenomeno più vicino alla religione che al semplice senso del dovere. Il libro ci immerge in un flusso di coscienza alla James Joyce unito alla capacità di osservare le persone fuori da ogni stereotipo, presentandoci una spiazzante capacità di stare dalla parte degli ultimi senza alcun intento di parteggiare per chicchessia e soprattutto senza il minimo cedimento al giudizio moralistico e piccolo borghese, superando forse anche la resa antropologica di alcuni testi di Fabrizio De André. Vitaliano Trevisan non dà infatti l’impressione di voler essere il cantore di qualcuno in particolare, ma non c’è dubbio che sappia benissimo di che cosa sta parlando (del suo mondo, della sua vita) e che non nutra il timore di contrapporsi al potere degli intellettuali al servizio dell’ordine costituito.
L’autore comincia a lavorare a poco più di 15 anni, quando il padre poliziotto vuol fargli capire da dove arrivano i soldi necessari a comprare una bicicletta “da maschio”, in sostituzione di quella della sorella di cui il giovane Trevisan vorrebbe tanto poter fare a meno. L’elenco dei vari mestieri (dal lattoniere all’arredatore, dal gelataio al drammaturgo) che l’autore sperimenta si affianca alla descrizione dei colleghi di lavoro e dei “padroni”, ognuno dei quali potrebbe aprire un mondo, con digressioni continue che fanno sembrare il libro un susseguirsi di potenziali incipit di libri diversi. In parallelo, fin dall’inizio, si dipana il racconto delle dipendenze, dalle quali il nostro protagonista si tiene sempre sufficientemente distante da non esserne risucchiato, non perché non ne subisca la fascinazione, ma proprio perché ne coglie perfettamente il potere conturbante e vischioso che ha fagocitato tanti della sua generazione, al prezzo della vita. Senza assumere mai l’attitudine del predicatore, Trevisan non si astiene dall’esprimere giudizi nettissimi e opinioni controcorrente sui vizi (tanti) e sulle virtù (che si celano il più delle volte dove meno te l’aspetti) della società veneta e della sua ipocrisia, e di riflesso di quella italiana.
La fatica di vivere e di lavorare allo scopo di guadagnarsi i mezzi di sussistenza è compensata dalla certezza che la via dello scrivere è quella che fa per lui. E che in fondo anche quest’ultima, come in fondo la prostituzione, non è che un “far commercio di sé”, oltre ad essere un modo per rispondere a quel senso di solitudine che da sempre lo accompagna e gli fa attraversare compiti professionali, doveri familiari, amori e amicizie finendo sempre per essere tradito, perché in fondo siamo e restiamo tutti quanti soli, specie in questa società che ha sacrificato tutto all’arricchimento (di pochi). Senza indulgere nell’autocompiacimento e senza fare sconti a nessuno, men che meno a se stesso, Trevisan non esita a descrivere l’impoverimento dell’orizzonte in cui viviamo, a stigmatizzare l’inconsistenza delle gerarchie sociali e a metterci davanti a tutta la spiazzante debolezza umana, dalla quale non si salva nessuno, tanto meno i “non omologati”. In fondo “contrariamente a quanto generalmente si è portati a credere, pensare solo a se stessi si rivela spesso la cosa migliore anche per gli altri”. E’ la stessa condizione umana a portarci verso il disagio, la rabbia, la frustrazione, senza la capacità di distinguerne la causa né l’oggetto. Non avremo mai le certezze che siamo portati a desiderare, sembra affermare con lucidità corrosiva ad ogni pagina l’autore di Works, e dietro agli apparenti successi non ci sono personaggi migliori di chi non arriva da nessuna parte.
La critica alla società e alla classe politica che l’ha forgiata è dunque inesorabile: “non sarebbe affatto male, penso, se di tanto in tanto si scambiassero i ruoli, e a qualche artigiano fosse assegnata una cattedra all’università, e a qualche professore un tornio, anche se temo che sarebbe solo l’università a guadagnarci”.
Non è affatto un libro deprimente: la distanza che l’autore mantiene nei confronti del suo sentirsi “diverso” e nei confronti dello scarto rispetto alle aspettative in cui l’umano si trova ad agire (e a fingere di non esserne deluso) consente di dischiudere una sottile ironia che rende più sopportabile il disincanto, e anzi, contribuisce a crearlo. Però a leggerlo ci si sente scomodi. Un po’ come nella vita, d’altronde. Specialmente a Natale.
WORKS
di Vitaliano Trevisan
Giulio Einaudi Editore