Caro ristoratore di Venezia,
tu non ti ricordi di me, ma io mi ricorderò a lungo di te. La spiegazione è doverosa.
Ammetto, prima di tutto, che non posso confrontarmi con quelli che, maestri di penna e di rime, hanno assai prima di me dedicato i loro pensieri e le loro opere a Venezia, ma è certo che il tragitto che il treno fa, dalla stazione di Venezia Mestre a quella di Santa Lucia, assomigli più ad un viaggio iniziatico che a un trasferimento reale.
La traversata della laguna è un vero e proprio portale per una nuova e diversa dimensione. La meraviglia di un mondo stravolto ti assale appena esci dalla stazione perché scopri che dove sei sceso le strade non sono d’asfalto, bensì d’acqua; i taxi non hanno le ruote, ma le eliche; gli autobus hanno gli scafi e i palazzi sorgono dal mare.
Lo stupore del nuovo ambiente non si interrompe avviandosi nella direzione di tutte le folle verso San Marco perché anche lungo la strada viene il capogiro nell’ascoltare gli idiomi dei viandanti. Si odono gli accenti più stravaganti in cui si riconoscono spesso le parole pronunciate all’inglese, ma inserite in una miscellanea di voci e di lingue da far dubitare che gli uni con gli altri ci si possa mai intendere. E invece – sorpresa delle soprese – ci si riesce! Un po’ come in un bar di Guerre Stellari, la stranezza degli ospiti e delle loro località di provenienza non è d’ostacolo alla convivenza perché tutti qui sono accomunati dal desiderio di vedere, partecipare, assistere al miracolo di Venezia.
Inoltrandosi sempre più lungo le strade e i vicoli, si rimane colpiti dall’architettura dei palazzi le cui facciate sono arricchite da finestre bifore, trifore o dagli archi arabeggianti; si sale e si scende per ponti e ponticelli; ci si introduce, superando bassi architravi di legni secolari, all’interno di portici oscuri affacciati sui canali dal colore cangiante, a seconda delle stagioni e del clima, tra il verde e il marrone; si percorrono calli strettissime, in cui le spalle sfiorano i rossi mattoni delle abitazioni prospicenti per poi sfociare in romantiche piazze, a volte enormi, a volte minuscole, ma sempre ornate da pozzi di marmo corroso dal tempo. Non si smetterebbe mai di girovagare per Venezia esaltati, ogni decina di metri, da un’angolazione o da un punto di vista da rubare con la macchina fotografica.
Ma a forza di camminare, di meravigliarsi e di sbalordirsi, viene appetito ed è qui che entri in scena tu, caro ristoratore che vivi e lavori a Venezia. Per una città che attrae il turismo come la calamita il ferro, la ristorazione è un tema di fondamentale importanza, è uno snodo critico, un punto di leva imprescindibile.
L’ultima volta che sono venuto a Venezia per la Biennale, ho voluto beneficiare della tua ospitalità ordinando gli spaghetti alle vongole. Il piatto che mi è arrivato presentava tutti i gusci separati dai frutti di mare: non ho dovuto staccare nemmeno un solo mollusco dalla sua sede naturale e la cosa mi ha stupefatto come il panorama dei palazzi della tua città perché, vedi, caro ristoratore di Venezia, per chi, come me, frequenta abitualmente la località laziale del Circeo e acquista le vongole del Lago di Paola – dove ti invitano a riportare quelle che non dovessero aprirsi in padella onde processarle per diserzione – un primo piatto in cui tutti i frutti di mare si presentano già staccati dalle valve è stata una novità assoluta.
Per non lasciare nulla al caso, ho rivolto un interpello agli amici che, più degli altri, si dedicano alla gastronomia ed è risultato che a nessuno è capitato di avere nel piatto le vongole, tutte ed inevitabilmente, con i muscoli separati dalle rispettive conchiglie, sicché viene il sospetto che tu mi abbia somministrato delle vongole surgelate già sgusciate unitamente ai gusci (spero almeno risciacquati) risalenti a chissà quale acquisto originario al quale ti sei dedicato in un passato indeterminato.
A questo proposito mi è venuto in mente il racconto (se ben ricordo presente ne Il Novellino, nella riscrittura di Aldo Busi e Carmen Covito – Ed. BUR) di quel mercante d’una città d’oriente che, dedito a vendere agnello arrostito, pretendeva dal mercante di stoffe a lui vicino un corrispettivo per il beneficio che questi traeva dal profumo della carne sulle braci. Al rifiuto opposto dal mercante di stoffe, nacque una lite che richiamò la folla del mercato e l’assembramento che ne seguì portò all’arrivo delle guardie che condussero i contendenti davanti al gran visir. Questi, udite le ragioni delle parti, decise che effettivamente il mercante di stoffe godeva del profumo dell’agnello che l’altro mercante arrostiva, ma stante la natura aerea dell’odore, quest’ultimo sarebbe stato pagato col tintinnio di una moneta fatta cadere sul marmo.
Allo stesso modo, caro ristoratore di Venezia, se un’altra volta mi servirai un fasullo piatto di spaghetti con le vongole, io ti pagherò con le banconote del Monopoli in osservanza della legge del taglione che, nella riscrittura adattata a questa sede, sintetizza: occhio per occhio, falso per falso.
Con i miei più distinti saluti.