“Sviluppi preoccupanti e pericolosi in Siria rischiano di innescare un’escalation militare che minaccerebbe quasi tre anni di relativa calma”. Così ha dichiarato nei giorni scorsi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite Geir O. Pedersen inviato speciale del Segretario generale per la Siria, sollecitando tutte le parti a ridurre immediatamente le offensive e a concentrarsi per contrastare lo stallo del processo politico. “Più violenza comporterà più danni per i civili siriani e metterà in pericolo la stabilità regionale, con i gruppi terroristici che approfittano della nuova crisi” ha aggiunto. “Siamo a una sorta di bivio”, ha proseguito Pedersen, chiedendo a tutte le parti di fare un passo indietro sull’uso della violenza, rinnovare il proprio impegno in ambito umanitario, e dare seguito alle iniziative sulle persone detenute e scomparse forzatamente. Pedersen ha inoltre auspicato la ripresa delle riunioni del Comitato costituzionale per la Siria, che non si riunisce da sei mesi. “Più a lungo rimane dormiente, più difficile sarà per esso riprendere il suo lavoro. L’assenza di un processo politico credibile promuove solo ulteriori conflitti e instabilità”, ha aggiunto l’invitato speciale, che prossimamente si recherà a Damasco, nell’ambito delle iniziative per portare avanti la risoluzione 2254 (2015) del Consiglio. A preoccupare le Nazioni Unite e la comunità internazionale c’è, in particolare, la nuova escalation di violenze nel nord della Siria, provocata dai combattimenti tra le Forze Democratiche Siriane (SDF) da un lato e la Turchia e gruppi di opposizione armata dall’altro, in tutto il nord della Siria, con la violenza che si è estesa al territorio turco. L’offensiva della Turchia contro le forze curde nel nord della Siria potrebbe iniziare “domani, la prossima settimana o in qualsiasi momento“, ha dichiarato mercoledì il portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, Ibrahim Kalin. Da diversi giorni Ankara ha lanciato un’operazione militare contro le forze curde in Siria e Iraq, sulla scia dell’attacco terroristico di Istanbul del 13 novembre, ma, per ora, solo con raid aerei e colpi di artiglieria sparati dal territorio turco. Erdoğan ha accennato alla possibilità di intervenire in futuro anche con truppe di terra e carri armati. Kalin ha dichiarato che la Turchia è in contatto con i paesi vicini e alleati, in particolare Russia e Iran, per le operazioni militari che intende condurre, ma che “non ha bisogno di ottenere il permesso per agire”. Il portavoce di Erdoğan ha anche affermato che la potenziale preoccupazione degli Stati Uniti per un’offensiva contro le forze curde nel nord della Siria non avrebbe alcun impatto sulle azioni militari di Ankara. La Turchia gioca di nuovo la carta della lotta al terrorismo, per procedere nei suoi progetti politici. Secondo il portavoce di Erdoğan, le tre precedenti operazioni militari turche in Siria avrebbero impedito la creazione di un corridoio del terrore tra il nord dell’Iraq e il Mediterraneo orientale: “Recep Tayyip Erdoğan ha chiesto ai leader mondiali, sin dai tempi della presidenza degli Stati Uniti di Barack Obama, una zona sicura profonda 30 chilometri. Se ci fosse stata, non ci sarebbe stata né tale migrazione [riferendosi ai profughi siriani – NdA], né attacchi terroristici” ha dichiarato Kalin.
La narrazione turca vuole la nuova offensiva militare come una ritorsione contro il terrorismo del PKK: la penetrazione per la profondità di 30 chilometri in territorio siriano, in quest’ottica, eviterebbe terrorismo e fughe di massa. Questa versione mostra però alcune incongruenze, oltre al fatto che i curdi negano ogni coinvolgimento. Già lo scorso giugno, infatti, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva annunciato un nuovo attacco su due città nel nord della Siria, sotto il controllo delle Syrian Democratic Forces (SDF), aggiungendo che la Turchia non avrebbe rinunciato all’annessione di una fascia di terra profonda trenta chilometri per “proteggere i suoi confini”. Nell’attentato dello scorso 13 novembre, che ha colpito il centralissimo viale Istiklal nella città di Istanbul, sono rimaste uccise sei persone e altre 81 sono state ferite. L’esplosione ha scosso un’affollata strada pedonale in zona Taksim, in quello che il presidente turco Tayyip Erdoğan ha definito un attentato dinamitardo che “puzza di terrorismo”. Poche ore dopo è stata arrestata una donna di nazionalità siriana, con origini curde, considerata responsabile dell’esplosione e Ankara aveva gridato al terrorismo dei gruppi curdi del PKK e delle YPG. Ahlam Albashir, questo il nome della donna, avrebbe confessato di essere stata addestrata proprio dal partito curdo armato PKK e dalle milizie curde siriane dello YPG. Oltre a lei, le autorità turche hanno arrestato 46 persone, identificate dalle telecamere puntate sulla zona. La dinamica dell’attentato non è chiara. Stando alla versione ufficiale, verso le 16.20 ora locale, la donna avrebbe appoggiato a terra una borsa carica di esplosivo. “Ci sono due possibilità: o la borsa aveva un meccanismo all’interno per esplodere autonomamente, oppure è stata fatta esplodere con un comando a distanza, l’inchiesta segue entrambe le ipotesi”, ha fatto sapere la sera stessa il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag. “Quella donna è stata seduta su una panchina per 40 minuti e poi si è alzata: l’esplosione è arrivata uno o due minuti dopo”, ha riferito ancora Bozdag. Ai media è stato imposto un divieto, “per motivi di sicurezza”, di diffondere informazioni relative all’attentato, mentre l’utilizzo dei social media, e in generale di internet, in serata risultava ancora limitato o rallentato”. I curdi, sin dal primo momento, hanno però negato ogni coinvolgimento con l’attentato.
“Il nostro popolo e il pubblico democratico sanno molto bene che non abbiamo legami con questo incidente, che non colpiremmo direttamente obiettivi civili e che non accettiamo azioni che prendono di mira i civili”, ha fatto sapere il PKK in un comunicato pubblicato da Firat, agenzia ritenuta vicina al gruppo armato curdo, considerato terrorista non solo dalla Turchia ma anche da Stati Uniti e Unione Europea. Anche la coalizione militare guidata dal PKK nel nord-est della Siria ha successivamente smentito ogni coinvolgimento nell’attentato. Lo ha detto, citato dai media siriani, Mazlum Abdi, portavoce delle Forze democratiche siriane a capo della coalizione, sostenuta dagli Usa, che domina il nord-est della Siria e che è ostile alla Turchia. “Assicuriamo che non abbiamo nessun legame con l’esplosione di Istanbul e respingiamo le accuse che ci sono state rivolte”, ha detto Abdi in riferimento alle accuse rivolte da Ankara al Pkk basato in Siria.
Ankara ha dato il via all’operazione “Spada di Artiglio” nella notte tra il 19 e il 20 novembre. I bombardamenti aerei turchi hanno già provocato vittime e distruzione. Il Covid Hospital di Kobane, nel nord-est della Siria, è andato completamente distrutto. La città di Kobane, è diventata tristemente nota in seguito alle brutali aggressioni da parte delle milizie dell’ISIS e all’assedio tra ottobre 2014 e gennaio 2015. Grazie a una resistenza che ha coinvolto uomini e donne e al sostegno della Coalizione Internazionale guidata dagli Stati Uniti, l’assedio è stato sconfitto, pagando un alto tributo di sangue.
La nuova offensiva turca ha colpito le località di Dayrik, Abu Rasyn, fino a Kobane e Afrin. Il quadro geo-politico si va ulteriormente complicando, con l’annuncio dell’Iran di voler bombardare zone curde in Iraq. L’asse Teheran-Ankara in funzione anticurda preoccupa non poco. L’Iran ha infatti recentemente “inviato nuovi rinforzi militari ai suoi confini occidentali vicino alla regione del Kurdistan iracheno e ha minacciato di lanciare un’invasione di terra transfrontaliera nel Kurdistan iracheno contro gruppi di opposizione curdi iraniani”, ha dichiarato un alto funzionario curdo iracheno in Iraq che ha chiesto di rimanere anonimo, secondo quanto riferisce Voice of America. “L’Iran ha radunato le forze vicino alla regione del Kurdistan e, attraverso una delegazione di ufficiali militari iracheni, ha inviato un messaggio al governo regionale del Kurdistan che potrebbe condurre un’operazione di terra se le forze del Kurdistan orientale [militanti curdi iraniani] non evacuano l’area”, ha aggiunto il funzionario. Dopo l’annuncio iraniano, Rebar Ahmed Khalid, ministro dell’Interno della regione del Kurdistan, ha incontrato i leader dei gruppi curdi iraniani, il Partito democratico del Kurdistan dell’Iran (KDPI) e l’Associazione rivoluzionaria dei lavoratori del Kurdistan iraniano, chiedendo loro di ritirare i loro combattenti Peshmerga dalla regione montuosa di confine per prevenire un’incursione iraniana. Va ricordato che le forze curde che operano in Siria non sono le stesse, né hanno le medesime ambizioni di quelle in Iran e che Ankara e Teheran hanno comunque obiettivi diversi. L’Iran afferma infatti di voler contrastare le possibili infiltrazioni di curdo-iracheni a sostegno delle contestazioni che da settimane coinvolgono diverse città. Le proteste contro il regime degli Ayatollah, in seguito all’uccisione a Teheran della giovane curda Mahsa Amini, lo scorso 13 settembre, non si sono fermate, nonostante la dura repressione e la minaccia di condanne a morte.
In questo scenario complesso, il progetto di autonomia curda del Rojava, considerate le numerose pressioni internazionali, difficilmente resisterà. Oltre all’asse Iran-Turchia, infatti, anche il prospettarsi di una nuova fase delle relazioni tra Ankara e Damasco sta mettendo in discussione gli equilibri regionali. La volontà dei due governi di tornare alla pax siro-turca firmata nel 1998 ad Adana influenzerà sia le comunità curde, che i Siriani stessi. Erdoğan aveva infatti affermato che “in politica non c’è alcun risentimento o antagonismo permanente”. Non c’è ancora una data certa circa il possibile primo colloquio tra i due leader, dopo anni di accuse reciproche. Il tavolo dei negoziati e degli accordi bilaterali rischia però di trasformarsi in un altare sacrificale, che vede da un lato le comunità curde isolate e prese di mira, dall’altro i profughi siriani, che corrono il rischio di nuove esecuzioni a seguito dei rimpatri forzati. Proprio del rischio a cui sono sottoposti i civili siriani che vengono rimandati contro la loro volontà in Siria si è discusso in occasione della conferenza internazionale Roadmap to a Safe Environment to Syria, che si è svolta a Ginevra dal 16 al 18 novembre su iniziativa della Syrian Association for Citizens’ Dignity (SACD), Free Syrian Lawyers Association, e dell’European Institute of Peace. “La Siria è il peggior paese al mondo in termini di sparizioni forzate, torture e violazioni dei diritti umani”, ha affermato nell’occasione Fadel Abdul Ghany, direttore esecutivo del Syrian Network for Human Rights. In una realtà modellata da tali violazioni”, ha concluso, “non può esistere un ambiente sicuro”.
(da Valigiablu.it)