Nell’anno in cui ricorrono alcuni importanti anniversari (Bianciardi, Carlo Levi, Zavattini, Flaiano e Molnár su tutti), parlare di scuola e del suo grado di abbandono da parte della politica e dell’informazione diventa un dovere. Un dovere, sì, perché siamo al cospetto di un disastro epocale che rischia di trascinare il Paese nel baratro, ancor più di quanto non vi sia già sprofondato.
Spiace dirlo, ma lo scarso clamore che suscitano determinati argomenti basta a qualificare il livello complessivo della nostra classe dirigente. La scuola è considerata dai più alla stregua di una rogna, di una questione secondaria, di un ambito da porre in secondo piano e da affidare alle seconde e terze linee dei vari partiti, di un contesto trascurabile in quanto non produttivo. E invece la scuola è la più grande attività produttiva che esista, il luogo in cui si costruisce il futuro, la nostra bussola e il faro che dovrebbe guidare ogni singola scelta. Un paese in cui la scuola non sia posta al centro del dibattito pubblico, infatti, non ha domani. Affermava Maria Montessori, di cui quest’anno, a proposito di anniversari, ricorrono i settant’anni dalla scomparsa: “Se c’è per l’umanità una speranza di salvezza e d’aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo”.
Oggi stiamo assistendo a una deriva pericolosa, fra richieste di umiliare ragazze e ragazzi, specie i più fragili, dunque più esposti all’errore e a comportamenti inappropriati, e una competizione disumana e devastante che sta minando le certezze e le prospettive delle nuove generazioni. Il Covid, l’ansia da prestazione propria di questa fase storica, il bisogno di primeggiare per stare sotto i riflettori, la richiesta di una sempre maggiore competitività, gli incentivi a sgomitare per andare avanti e tutti gli altri pessimi esempi che giungono da una società senza principî e da una politica che sta dando davvero il peggio di sé fanno il resto. E così, assistiamo allo strapotere degli enti preposti alla valutazione, ovviamente tramite crocette e senza tenere conto delle specificità di ognuno, al processo di privatizzazione, neanche troppo strisciante, della scuola pubblica, alla demotivazione crescente fra insegnanti e studenti, alla piaga della dispersione scolastica che, soprattutto al Sud, sta assumendo proporzioni allarmanti e al lento ma inesorabile lasciarsi andare di un mondo dal quale dipende il nostro futuro.
Stiamo assistendo inerti alle difficoltà crescenti di una generazione meravigliosa, impegnata politicamente, attenta ai temi del sociale e dell’ambiente, alla dignità delle persone, ai diritti e ricca, ricchissima di valori; una generazione che, tuttavia, non ce la fa più a subire il massacro che le viene imposto da una società che pretende tanto senza offrire nulla in cambio: né prospettive di lavoro né rispetto né tutela della propria dignità. Occorre, sull’argomento, una radicalità che finora non si è vista, se non durante il Conte II, quando la scuola venne posta al centro del dibattito pubblico, al pari di studenti e studentesse, finalmente considerati nella loro unicità e nella loro bellezza interiore. Per il resto, abbiamo visto quasi solo disprezzo, indifferenza e mancanza di attenzione e di coraggio nei loro confronti, mentre la pandemia infuriava e toglieva ogni punto di riferimento, al punto che i problemi psicologici sono aumentati in maniera esponenziale, le disuguaglianze si sono acuite, le scuole di periferia hanno subito contraccolpi incredibili e i più deboli si sono persi, nel silenzio generale di un’informazione intenta a straparlare dei banchi a rotelle, peraltro ottimi, e di una classe dirigente intenta a chiedere maggiore severità, più bocciature e una selettività sempre più estenuante, dando l’impressione, fondata, di voler gettare benzina sul fuoco.
Ci si è accorti, poi, con una quindicina d’anni di ritardo che un altro degli enormi problemi della scuola italiana è legato ai programmi, ormai vetusti e inadeguati alle richieste e alle necessità degli adolescenti di oggi. Se la mia categoria, anziché offendere una ministra e una persona perbene e irridere le sedute innovative, avesse compiuto qualche ricerca saprebbe che la disposizione dei banchi a isola, il recupero della dimensione comunitaria e cooperativa, l’utilizzo delle nuove tecnologie, compresi gli “esecrabili” cellulari, e tutte le innovazioni che vengono messe quotidianamente in atto nelle scuole italiane per scongiurare gli abbandoni e valorizzare al meglio una generazione in guerra con se stessa sono l’ultima possibilità che abbiamo di non perdere il Paese.
A tal proposito, bisogna aggiungere che le richieste di ragazze e ragazzi non vanno nella direzione di meno studio e competenza, tutt’altro; ascoltandoli, conoscendoli, intervistando e parlando a lungo con insegnanti e presidi, mi sono reso conto che questi adolescenti non chiedono altro che una rivoluzione nei metodi d’insegnamento e nei programmi, più protagonismo, un maggiore coinvolgimento nei processi di apprendimento, una didattica che si prenda cura delle caratteristiche di ciascuna e ciascuno e meno ansia, meno tensione, meno stress; insomma, l’esatto opposto dei dogmi del liberismo selvaggio con cui siamo stati ammorbati negli ultimi trent’anni.
Vengo da una famiglia di insegnanti, alla scuola devo tutto e, nel mio piccolo, ritengo un dovere morale restituirle almeno qualcosa del tanto che mi ha dato. Ritengo doveroso, innanzitutto, riaffermare l’importanza di quest’istituzione, contrastando con il massimo vigore coloro che la denigrano senza saperne niente e si permettono di mettere in contrapposizione le sue componenti. E poi penso che sia necessario che ciascun giornalista, affinché il proprio mestiere ritrovi un senso, si avvicini a questo mondo con umiltà e cerchi di conoscerlo e di capirlo, di comprenderne l’importanza e di trasmetterla ai lettori, di andare a imparare dai nostri giovani, che sono autentici scrigni di conoscenza, e di esortare professori e presidi a trasmettere prima di tutto il valore della libertà, dell’indipendenza e della formazione di un pensiero critico e autonomo su ogni singolo aspetto della società.
Cattiveria, pregiudizi, richieste di tornare a un passato tutt’altro che edificante, frasi fatte e luoghi comuni non servono a nessuno. Personalmente, alla scuola, ai miei insegnanti e al loro avermi trasmesso concetti che vanno ben al di là delle singole nozioni, come detto, devo tutto. Devo alla scuola la mia formazione come uomo, le devo il mio aver imparato a prendermi cura degli altri, le devo il mio aver smussato gli angoli di un carattere tutt’altro che semplice e, più che mai, le devo il mio aver imparato a mettere in discussione me stesso, senza prendermi troppo sul serio e mitigando la mia presunzione. Per questo, come posso, starò vicino a un universo che sento mio, con l’anarchia di Bianciardi, la disperata grandezza di Levi, lo spirito visionario di Zavattini, l’ironia graffiante di Flaiano e la meraviglia di Molnár, colui che ci ha insegnato ad apprezzare l’unico soldato semplice in un esercito di generali. Ma i generali, oggi come ieri come sempre, senza popolo e senza esercito non possono vincere.
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