“Jin, jiyan, azadî” (donna, vita, libertà) è lo slogan che guida la straordinaria mobilitazione di protesta che sta attraversando tutta la società iraniana, a partire dal moto di indignazione scatenato dal femminicidio della donna curda Jîna Amini da parte delle guardie del regime di Teheran il 16 settembre. La mobilitazione guidata dalle donne si è estesa a macchia d’olio dalle città alle campagne, dalle università alle fabbriche, fino a culminare con la proclamazione di tre giorni di sciopero generale dal 5 al 7 dicembre, con una partecipazione che in alcune zone ha sfiorato il 100%. Alla base c’è l’insofferenza generale, soprattutto delle donne, che ne sono le principali vittime, nei confronti di un regime nazi-teocratico, oppressivo, violento, mortifero, fondato sulla discriminazione di genere e sulla repressione di ogni diversità o dissenso. Un regime che non ha ritegno a ricorrere alla tortura e ad usare la forca persino nei confronti dei minorenni e che, nel tempo, ha ulteriormente inasprito le sue vessazioni. Basti pensare alla legge del 1984 che introdusse la pena di 72 frustate per le donne che non portavano l’hijab e istituì la polizia religiosa, incaricata di vigilare sul rispetto delle norme della sharia relative al codice di abbigliamento.
La risposta del regime alle pacifiche proteste del popolo iraniano è stata durissima. Secondo le ultime stime, il numero dei manifestanti uccisi durante le proteste ha superato quota 440, fra questi vi sono 64 bambini. Sono state arrestate 20.000 persone, fra questi 63 giornalisti e molti personaggi del mondo della cultura e dello sport. Secondo Amnesty international, sono state già emesse 28 condanne a morte, di cui tre nei confronti di minorenni. L’ultima condanna a morte di cui si abbia notizia è stata emessa nei confronti di Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre figli, accusata di essere una delle leader delle manifestazioni di ribellione. E il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei ha avvertito: “i rivoltosi condannati a morte saranno impiccati presto”. Infatti è già avvenuta la prima esecuzione di un manifestante, Mohsen Shekari, giudicato colpevole del reato di “guerra contro Dio”.
La dimensione popolare e diffusa delle proteste dimostra che è in atto una maturazione della società civile iraniana che non può essere più contenuta dalla struttura autoritaria e disumana del potere teocratico. C’è un intero popolo che lotta per la libertà e per il riscatto della dignità umana. Purtroppo la resistenza civile del popolo iraniano è esposta alla brutalità di un regime che può imprigionare, torturare, uccidere chiunque, senza incontrare limiti di sorta. E’ in atto un vero e proprio martiro, che colpisce soprattutto le donne, principali vittime e principali agenti della ribellione.
La comunità internazionale dovrebbe fermare questo scempio. Dovrebbe intervenire il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ai sensi del Cap. VII della Carta perché il rischio di una guerra civile in Iran comporta una minaccia alla pace e non può essere liquidato come una questione interna. Del resto l’Iran dal 23 marzo 1976 ha aderito al Patto internazionale dell’ONU relativo ai diritti civili e politici e quindi è responsabile della sua violazione dinanzi alla comunità internazionale. Purtroppo è difficile che il Consiglio di Sicurezza possa effettuare un intervento rispetto alla crisi iraniana come fece del 1998 con le Risoluzioni 1199 e 1203 relative al Kosovo, dove era in atto una crisi molto meno grave dal punto di vista umanitario. Il confronto politico-militare portato avanti dagli USA nei confronti di Russia e Cina, impedisce al Consiglio di Sicurezza di esercitare la sua funzione. Il rischio è quello di ripetere il caso siriano dove il regime criminale di Assad è stato mantenuto in piedi dalla Russia per timore di perdere la propria influenza in Siria insidiata dai guerriglieri islamici appoggiati da USA e Arabia saudita. La nuova guerra fredda, di cui vediamo l’aspetto più sanguinoso nella guerra dell’Ucraina, nuoce anche alla resistenza del popolo iraniano, paralizzando le istituzioni internazionali e mettendo fuori gioco l’ONU. Nel suo ultimo film, “il male non esiste”, il regista iraniano Mohammad Rasoulof, mette in scena la ribellione della coscienza individuale alla logica di morte del regime. E’ un grido contro la disumanità del regime ma è anche l’annunzio di una resistenza che nasce dal profondo della coscienza. L’assunto è che la coscienza di ogni singolo uomo deve fare le sue scelte e può dire di no. Quando tante coscienze si risvegliano, nasce un movimento di resistenza che neanche le feroci pratiche repressive degli ayatollah possono bloccare.