Del popolo curdo, con ogni evidenza, non importa niente quasi a nessuno. Non all’Unione Europea, che ha deciso, di fatto, di sacrificarlo in cambio dell’assenso di Erdoğan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO. Non all’Iran e alle potenze del Golfo, che lo vivono come una minaccia costante, specie in una fase storica così delicata. Non certo al governo turco, che lo considera sostanzialmente alla stregua di un’organizzazione terroristica, non tracciando poi tutte queste gran distinzioni fra i leader del PKK, su tutti Abdullah Öcalan, e la cittadinanza in generale. E non importa nemmeno ai meta-stati che fanno il bello e il cattivo tempo nelle nostre democrazie, dato che su Facebook anche solo postare una riflessione su questi argomenti può costare sanzioni piuttosto gravi, poiché noi, difensori dei valori occidentali e delle supreme virtù democratiche, riteniamo un’organizzazione politica un’associazione criminale, volta a compiere azioni destabilizzanti. Dallo scorso 13 novembre, giorno dell’attentato in viale İstiklal ad Ankara, non lontano da piazza Taksim, la situazione è addirittura peggiorata, anche perché il satrapo attualmente al potere deve affrontare le elezioni l’anno prossimo e si sente, evidentemente, meno saldo di quanto non appaia a noi che lo guardiamo da fuori. Del resto, sta lì da vent’anni e un certo logoramento è fisiologico persino nei regimi, specie se si considerano le numerose crisi cui ha dovuto far fronte e l’opposizione strisciante che serpeggia nel Paese. Peccato che alle nostre latitudini sia pressoché vietato schierarsi dalla parte del popolo curdo, come avviene per quello palestinese, per la drammatica vicenda di Julian Assange e per qualunque forma di opposizione che non sia gradita ai padroni del vapore. Tutto ciò che si richiama, in qualche misura, al comunismo o a qualcosa di affine, sembra infatti non poter essere tollerato all’interno della nostra società, come se si trattasse di uno stigma, di una colpa senza appello, di una condanna preventiva, come se fosse accettabile compiere distinzioni pelose fra il dramma di alcuni popoli e quello di altri, allentando così i vincoli di solidarietà universale e indebolendo le nostre meritorie battaglie a sostegno dei civili ucraini o di quelli iraniani.
L’aspetto più tragico di questa modernità senza diritti e senza dignità è che genera disuguaglianze ovunque, innanzitutto a danno dei più deboli, degli ultimi, degli esclusi, di coloro che non hanno patria, non hanno confini non hanno alcun riconoscimento, vivono in una prigione a cielo aperto come i palestinesi a Gaza o sono scacciati da chiunque come i curdi. E non possiamo certo essere noi, con la nostra ipocrisia al diapason, il nostro finanziamento annuale alla Turchia affinché si tenga i profughi in fuga dagli inferni del mondo, i nostri silenzi imbarazzanti sulla repressione in atto in numerosi paesi e le nostre vergogne, da Bolzaneto a Guantánamo ad Abu Ghraib, a farci paladini della giustizia e della libertà. Peccato che, nel frattempo, un popolo sia soggetto a continue vessazioni, a continui insulti, al massacro della propria gente, alle condanne esorbitanti nei confronti dei propri leader, a orrori d’ogni sorta e a una barbarie verso cui siamo sostanzialmente accondiscendenti. Del resto, abbiamo mai speso una parola per il popolo yemenita? Ci siamo mai indignati per le mattanze che avvengono in Africa? Ci siamo mai davvero battuti contro la brutalità delle dittature latinoamericane? Diciamo che la nostra, da alcuni decenni a questa parte, sembra essere diventata un’indignazione selettiva, ed è evidente che i curdi non rientrino nelle grazie di chi stabilisce contro cosa è lecito scagliarsi e contro cosa no, quale repressione è possibile condannare e quale, invece, dev’essere lasciata agire indisturbata.
Noi, nel nostro piccolo, pensiamo al contrario che esistano unicamente i valori universali, che la dignità umana vada posta sempre e comunque al primo posto, che le discriminazioni e le violenze siano tutte inaccettabili, che la libertà d’espressione vada garantita a tutti i popoli, senza distinzioni, e che ci si debba battere, al contempo, per gli ucraini, per gli iraniani, per i curdi e per chiunque soffra sotto il tacco di tirannie sempre più feroci e disumane. Ci battemmo per Öcalan nel ’98, ci battiamo per Assange oggi e continueremo a batterci al fianco di chiunque, in ogni parte del pianeta, subisca un sopruso o un’ingiustizia. Magari eviteremo di pubblicare quest’articolo dove, ahinoi, non è gradito ma non abbiamo alcuna intenzione di smettere di far sentire la nostra voce. Se non altro per uscire dal gregge, per costituire la classica stecca nel coro, per non arrenderci all’inciviltà di una fase storica che sta travolgendo chiunque e conducendo il pianeta nel baratro. Esiste un limite anche alla pavidità e, a nostro giudizio, è stato oltrepassato da tempo.