I Mondiali di calcio di Qatar 2022 sono terminati così com’erano iniziati: con una conferenza stampa del presidente della Fifa, Gianni Infantino, che ha esaltato lo stato organizzatore, ha ribadito che i tifosi vogliono divertirsi e ha minimizzato la questione dello sfruttamento dei lavoratori migranti.
Quei lavoratori migranti, o meglio i sopravvissuti, che avevano costruito gli otto stadi ora li stanno smontando, ammodernando, ridimensionando. Restano lì, in Qatar (anche perché vi si svolgeranno, il prossimo anno, i campionati asiatici di calcio) così come restano tutti i problemi legati ai diritti.
Problemi che si chiamano mancati risarcimenti, paghe esigue, divieto d’iscrizione ai sindacati, mancata applicazione delle poche riforme introdotte negli ultimi anni: come ad esempio l’abolizione del sistema della kafala, che per anni ha legato ai datori di lavoro i lavoratori e che continua a essere vessati dalla necessità di un nulla osta per cambiare impiego.
Restano naturalmente i problemi per la popolazione locale: per le donne discriminate e per la comunità Lgbtqia+ criminalizzata.
Problemi che le organizzazioni per i diritti umani avevano denunciato da anni. Ora sappiamo perché se n’è parlato poco e niente: perché c’era qualcuno, a Bruxelles, che veniva pagato per non parlarne o meglio per parlare di tutt’altro e bene.
Amnesty International continuerà a chiedere alla Fifa di istituire un fondo di risarcimento di 440 milioni di dollari per i lavoratori che hanno subito violazioni dei diritti umani e per le famiglie di quelli deceduti che, poiché secondo le autorità locali non si è trattato di morti sul lavoro ma nel sonno, non meritano riparazione economica.
C’è da augurarsi che qualche lezione sia stata appresa e che le 10 federazioni calcistiche europee (tra le quali non c’è quella italiana) che hanno espresso appoggio alla campagna di Amnesty International chiedano a Infantino di rendere conto delle sue dichiarazioni e dei suoi propositi per il futuro. All’orizzonte avanza infatti, minacciosa, la candidatura dell’Arabia Saudita per i Mondiali del 2030.
Un altro campionato di calcio negli stati del Golfo, in assenza di progressi concreti e misurabili sui diritti umani, non può e non deve essere assegnato.
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