Georges Simenon (Liegi, 1903 – Losanna, 1989) è stato un romanziere belga di espressione francese, universalmente conosciuto – anche grazie alle innumerevoli riduzioni cinematografiche e televisive – per aver creato il personaggio di Jules Maigret, il commissario parigino sul quale è incentrato un ciclo di inchieste comprendente 75 romanzi e 28 racconti, che rappresentano tuttavia una parte minoritaria della sua sterminata produzione, miniera pressoché inesauribile per il resto costituita, oltre che da volumi di memorie e ricordi di viaggio, dai cosiddetti ‘romanzi duri’, nei quali egli mise, in realtà, il proprio maggior impegno di scrittore: più di altri 100 titoli.
Simenon fu, come detto, scrittore di ineguagliata prolificità; André Gide, che lo ammirava e intrattenne con lui un significativo carteggio, lo definì, con motto calzante (anche se non condiviso dall’interessato), il Balzac del XX secolo. L’accostamento non deve sembrare irriverente; se l’enorme notorietà ha nuociuto a Simenon in sede di giudizio critico, relegandolo fra la schiera degli scrittori ‘facili’ e ‘popolari’, oggi è finalmente riconosciuto il valore di questa nuova ‘commedia umana’ aggiornata al XX secolo. In Italia è stata soprattutto la casa editrice Adelphi a impegnarsi in anni recenti nella meritoria impresa di riscoprire, al di là di tanti vieti luoghi comuni, lo straordinario affresco. Ancora adesso Simenon, a distanza di più di 30 anni dalla scomparsa, resta uno degli autori più letti e amati al mondo, e non solo grazie alle inchieste dell’immortale commissario.
Nessuno dei romanzi dello scrittore belga (inchieste o romanzi ‘duri’) delude alla lettura. Con Simenon si va sempre sul sicuro, anche scegliendo a caso; si avverte forse la stanchezza di una certa formula ripetitiva soltanto nei troppo consapevoli Maigret del terzo e ultimo ciclo narrativo (quello posteriore al secondo conflitto bellico), che restano comunque opere di scaltrito e godibilissimo artigianato, realizzate secondo un metodo di lavorazione ormai ‘seriale’: per ammissione dello stesso autore, la stesura di ciascuna inchiesta gli richiedeva poco più di una settimana di lavoro, eseguito (sosteneva) quasi in stato di trance.
Simenon ha rinnovato profondamente il genere poliziesco. Certo Maigret si impegna nella ricerca del colpevole e nella risoluzione del caso con perizia e intuito pari a quelli dei suoi illustri predecessori, ma ciò che gli interessa non è tanto giudicare e punire i criminali (per i quali prova talvolta più umana simpatia che per le vittime), quanto “piuttosto capire come e perché abbiano agito” (Paolo Mereghetti). È altrettanto lontano dal metodo rigorosamente deduttivo, infallibile, quasi algido caro a detective di invenzione britannica quali Sherlock Holmes o Hercule Poirot che dal cinismo ruvido e disincantato degli investigatori privati americani riconducibili al filone hard-boiled come Sam Spade e Philippe Marlowe. Condivide col suo creatore quella capacità di penetrazione nell’animo umano che ritroveremo anche nei ‘romanzi duri’.
Nella sua intera opera Simenon non ricorre a più di 2.000 vocaboli essenziali; raro che in una stessa frase siano presenti più di uno, massimo due aggettivi. La dimensione psicologica dei personaggi, sui quali ogni giudizio è sospeso, viene resa con brevi incisive notazioni. Lo stile è scarno e concreto, sempre aderente a una realtà descritta in tutte le sue falle, smagliature e contraddizioni, e nello stesso tempo affrontata con comprensiva umanità in ossequio al principio al quale non venne mai meno lungo tutta la durata della sua carriera: Comprendere i personaggi e mai giudicarli: ci sono soltanto vittime e non colpevoli.
Ritroviamo gli stessi pregi stilistici, ma con ambizioni più alte, nei romanzi non riconducibili alla figura inconfondibile, collaudatissima di Maigret, i quali, senza nulla togliere ai superbi gialli parigini, sono poi quelli in cui l’autore ha posto il suo maggiore impegno letterario, stilistico, personale. Simenon, del resto, considerava le inchieste del commissario mero ‘lavoro alimentare’, inteso insomma a guadagnarsi onestamente la pagnotta, riservando più consapevoli intenti artistici ai cosiddetti ‘romanzi duri’, fra i quali saranno da citare qui almeno: Il passeggero del Polarlys (1930), Il testamento Donadieu (1937), L’uomo che guardava passare i treni (1938), Il viaggiatore del giorno dei morti (1941), Tre camere a Manhattan (1946), Lettera al mio giudice (1946), I fantasmi del cappellaio (1948), L’orologiaio di Everton (1954) e Il treno (1961).
Ma a giudizio di molti – non escluso lo stesso autore – il vero capolavoro di Simenon resta La neve era sporca, il suo libro più impegnato e potente, pubblicato nel 1948, nei – per lui – difficili anni del secondo dopoguerra: sospettato, probabilmente a torto, di collaborazionismo, aveva preferito attraversare l’oceano e trasferirsi negli Stati Uniti, dove si tratterrà per parecchi anni, letterariamente proficui. Già nel 1950 il libro venne tradotto in inglese dalla moglie del noto compositore Edgar Varèse, e proprio con questo romanzo Simenon doveva conquistare il mercato britannico. La vicenda, certo la più cupa e sconvolgente uscita dalla sua penna, si svolge in un gelido imprecisato paese sotto occupazione straniera, verosimilmente durante la Seconda Guerra mondiale. Potrebbe trattarsi del nativo Belgio o dell’Olanda; altri vi hanno identificato qualche fredda città dell’Europa orientale, forse Praga; ma l’indeterminatezza del luogo appare intenzionale. Negli occupanti vengono riconosciuti convenzionalmente i nazionalsocialisti tedeschi, ma vi si potrebbe vedere, con motivazioni non meno valide, i sovietici. A quanto si sa l’autore, puntuale e impietoso indagatore dei moti dell’animo umano ma poco incline ad analisi storiche o all’impegno politico, non ha sciolto l’interrogativo.
In ogni pagina dei romanzi di Simenon si respira la vita quotidiana dell’uomo comune del ‘900: un mondo che oggi non esiste quasi più. I suoi racconti sono ambientati in trattorie, stamberghe, alberghi a ore, porti di mare e di fiume, stazioni ferroviarie… Predominano le sensazioni tattili, olfattive, visive, rese in modo estremamente diretto e, insieme, sottile: il vento che taglia la faccia, l’incrocio degli sguardi, un sussulto o un fremito impercettibili, il sapore del caffè, l’odore dei ceri, l’eco dei passi su un selciato, il cigolio delle molle di un letto… Le vicende dei personaggi non s’intrecciano virtualmente mai con i grandi avvenimenti mondiali. Al pari dei suoi personaggi, Simenon sembra del tutto disinteressato ai risvolti storici o politici. In tal senso La neve era sporca rappresenta una felice, isolata eccezione; con il romanzo l’autore, pur non precisando la collocazione geografica, come invece fa in tanti altri casi (Parigi, Normandia, USA…), ci scorta senza mediazioni nell’inferno della Seconda Guerra mondiale: un fattore che distacca nettamente il libro dal resto della sua opera.
Il protagonista, Frank Friedmaier, figlio diciannovenne, taciturno e scontroso, della tenutaria di una casa d’appuntamenti, non ha un’occupazione stabile. Fin dalle prime pagine desumiamo che non studia né lavora. È dedito ai piccoli traffici illeciti immancabili in epoca bellica. Nelle ore diurne non disdegna di osservare, salendo in piedi sul tavolo della cucina, attraverso uno sportellino a vetri segreto, le evoluzioni dei clienti della madre. Le ragazze cambiano in continuazione: gli avventori esigono varietà d’offerta; del resto, complici fame e miseria, non è difficile trovarne sempre di nuove. In quanto figlio della padrona, Frank non ha difficoltà a ottenere che queste gli si concedano senza opporre particolare resistenza: sanno che è solo uno, e nemmeno il più sgradito, dei prezzi da pagare per essere ‘assunte’ e sfuggire, sia pur temporaneamente, alla morsa della fame e del gelo. In verità, costa molto di più andare a fare file interminabili davanti ai negozi o trasportare in pesanti sacchi il carbone nella ‘casa’ per conto della padrona. Quest’ultima, donna navigata, rotta a ogni finzione e compromesso, capace del più sordido savoir-faire, intrinseca a molti uomini potenti, dirige la casa con accortezza e autorità. Il rapporto col figlio, che ama (e forse è solo per rispetto di lui che ha cessato di esercitare la professione in prima persona) è difficile; e può anche capitare che Frank, in uno dei non rari momenti di collera, la apostrofi coll’epiteto che indica proprio quella ‘professione’ che ella aveva presumibilmente esercitato in gioventù.
L’assenza del padre è un tema mai trattato esplicitamente ne La neve era sporca. Solo in un breve passo il protagonista è sfiorato dal sospetto che l’ispettore capo di polizia, probabile vecchio amante di sua madre che rende visite regolari al postribolo – ma non come cliente – sia suo padre. Non è che un accenno: del resto, nella sua sovrana cinica indifferenza, un padre vale l’altro, per lui – ma un accenno che basta a indicarci come Simenon avesse ben presente questo elemento lasciato inespresso, libero di agire per vie sotterranee.
Le restrizioni del tempo di guerra prevedono gravi limitazioni all’uso della corrente e del carbone; le case sono prive di riscaldamento e gli inquilini poveri – la schiacciante maggioranza – indossano uno sopra all’altro tutti gli indumenti che hanno la fortuna di possedere: maglie, panciotti, pastrani, sciarpe, guanti… Al mercato nero, invece, Frank trova tutto quello che desidera; i suoi abiti di buon taglio costituiscono una provocazione indigeribile per i concittadini che passano ore in fila, in piedi, al gelo, davanti ai negozi con le loro povere carte annonarie, in un paesaggio urbano desolante, nel cuore dei rigori dell’inverno: Sempre neve sporca, tutta quella neve che pare marcita, con tracce nere e incrostazioni di detriti” sotto a un “cielo bianco come un lenzuolo, più bianco e più puro della neve, con quell’aria arcigna, dal quale non veniva giù che un po’ di cipria diaccia.
I vicini detestano e disprezzano Frank e la madre, invidiano loro l’abbondanza di carbone, gli abiti caldi, i viveri: ma vivaddio non ci sarebbero stati per sempre gli occupanti stranieri a proteggerli! Frank, per di più, per i segnalati, illeciti servigi resi, tramite l’amico Kromer, a un ufficiale straniero di alto grado, venale e corrotto, ha pure ottenuto la tessera verde, appannaggio di pochissimi, ambito documento che gli conferisce il diritto di non poter essere sottoposto a perquisizione, privilegio prezioso per un delinquente suo pari. Non esita a esibirla con ostentata arroganza ogni volta che se ne presenti l’occasione: i controlli per le strade sono ovviamente frequenti. Si alza tardi al mattino e passa le ore diurne ad annoiarsi nella casa-bordello, fra uno svogliato appostamento davanti allo sportellino a vetri (dice bene la madre: i borghesi sono i più sporcaccioni) e qualche squallido distratto amplesso, ora con questa ora con quella ragazza (Bertha, Minna, Anny…), riluttante o innamorata per lui non fa differenza – prima di incontrare nel tardo pomeriggio, ‘da Timo’, locale non meno malfamato che esclusivo, gli amici dediti a ogni tipo di traffici. Frank ha eretto il vacuo spavaldo Kromer a proprio modello. Si muove in un ambiguo sottobosco di doppiogiochisti dove tutti rischiano la vita: collaborazionisti, partigiani, criminali comuni; dove odiose prevaricazioni, furti e omicidi impuniti sono all’ordine del giorno, prosperano corruzione e mercato nero, e scompaiono nel nulla presunti ‘terroristi’ o ‘sabotatori’ – quelli che altri, a mezza voce, chiama patrioti ed eroi (qualche volta, però, trapela la notizia che sono stati passati per le armi). La città è soggetta a un fantomatico Comando d’occupazione ed è posta sotto coprifuoco nelle ore notturne. Frank, ‘da Timo’, vive fra una cerchia di amici nella quale i delitti – commessi o, più probabilmente, millantati, soprattutto da Kromer – sono frequente occasione di vanto. Ai loro occhi il crimine è l’unica possibile iniziazione a una forma superiore di virilità.
Frank non si limita all’arroganza. Compie due omicidi; il primo, del tutto gratuito, senz’altra motivazione che quella di non essere più considerato un pivello da quei suoi presunti amici che, come Kromer, si danno il tono di veri uomini. Di lì a poco un complesso di sfortunate coincidenze lo indurrà a commettere un secondo efferato assassinio, quello di una vecchietta inoffensiva, eseguito con gelida determinazione, benché siano legati alla vittima molti dei suoi ricordi di bambino. Frank ha compiuto tutto a mente fredda, con una freddezza e un cinismo che lo hanno allontanato ancora di più dai propri simili e da se stesso. Ha ormai “doppiato il promontorio”, si è “affacciato dall’altra parte”, ma non vi ha visto quello che si aspettava di trovarvi. Non ha pietà per nessuno e da nessuno ne accetta, tanto meno dalla madre e dalle sue occasionali ‘ragazze’.
Nella frenesia di tagliarsi tutti i ponti alle spalle, Frank trasforma la sua vita in una cupa odissea di affronti e violenze, in una proterva, quotidiana sfida al destino, finché non ordisce con la complicità di Kromer un inganno brutale e codardo ai danni di una vicina di pianerottolo appena pubere, certa Sissy, innamorata di lui: misfatto ignobile, che desta per la prima volta nel suo animo il sentimento di un’acre vergogna. Se aveva compiuto i due assassini con disumano distacco e cinica ferocia, la consapevolezza di aver fatto di una ragazzina innocente una creatura infelice, forse per il resto della vita, scalfisce per sempre la sua glaciale indifferenza. La neve era sporca diventa da questo punto in avanti il romanzo di una redenzione inattesa, raccontata con ammirevole verosimiglianza psicologica; una storia d’amore capovolta, proprio per questo più autentica.
Sarebbe improprio parlare di pentimento. Il pentimento è un moto dell’animo che esula del tutto dall’orizzonte mentale del ragazzo e sarebbe in contraddizione con la sua natura e la sua esperienza del mondo. Frank compie semplicemente una decisa, irrevocabile presa di coscienza: in pochi istanti ha acquisito la piena cognizione della propria miseria umana – cognizione che non l’avrebbe abbandonato per il resto della sua breve esistenza. La vita di Kromer vale così poco che probabilmente questi riuscirà a salvarla, dandosi alla macchia; Frank, approdato sia pur tardivamente a un grado di consapevolezza inaccessibile ai suoi indegni amici, per saldare in extremis i conti col proprio passato confessa a un’autorità che non riconosce e non teme neanche più, misto di burocrazia e terrore, tutti i suoi crimini, anche quelli per i quali non è sospettato, ma senza fare, per un residuo soprassalto di orgoglio e dignità, i nomi di quei complici dai quali lo separa ormai un baratro morale, intellettuale, umano.
Nelle bellissime pagine finali del romanzo, quelle che precedono l’inevitabile, sanguinoso epilogo, si svolge – episodio indimenticabile – l’ultimo incontro tra lui e Sissy, dalle cui parole trae un’estrema insperata rivelazione. Il non ancora ventenne Frank Friedmaier è pronto ad affrontare da uomo l’incombente destino; non poteva ottenere di più da una vita come la sua, e ne è consapevole:
Non ha che questo. Questo solo ha avuto. È tutta la parte che gli spetta. Nulla è stato prima, nulla esisterà dopo.
La neve era sporca
gli Adelphi, 246
2004, 9ª ediz., pp. 266
isbn: 9788845918636
Temi: Letteratura francese