Stiamo attenti ai santini. Arnoldo Mondadori, oggi venerato come grande editore e punto di riferimento della cultura italiana, inventore di un impero partito dal nulla, al punto di meritarsi addirittura una bella docu-fiction in prima serata su Raiuno, non avrebbe amato per nulla il mondo contemporaneo; anzi, siamo convinti che lo avrebbe disprezzato. Ne avrebbe disprezzato il classismo, la ferocia, la pochezza, la scarsa attenzione nei confronti della cultura ma, soprattutto, avrebbe disprezzato l’idea attuale di una cultura appannaggio dei soliti noti, in mano a una casta egoriferita e autoreferenziale che, per lo più, si parla addosso e si rivolge, spesso in codice, ai suoi simili. Avrebbe detestato, poi, l’elitarismo diffuso, la mancanza di rispetto nei confronti di chi sa meno, la presunzione e la protervia di chi non ha mai affrontato le difficoltà della vita ma non perde occasione per scagliarsi contro il prossimo, con una sicumera e una crudeltà degne di miglior causa.
Del resto, Mondadori veniva dalla miseria, aveva conosciuto la sofferenza e aveva un sogno: portare la conoscenza nelle case di tutti, a cominciare da coloro che avevano meno soldi ma non per questo meno diritto di sapere. Racconta la fiction, ma a noi piace pensare che sia vero, che a cambiargli per sempre la vita fu la maestra che gli regalò un libro, la stessa che tornò a trovare tanti anni dopo a Ostiglia, quando era ormai un uomo ricco e affermato, e dalla quale ricevette l’ispirazione per inventarsi la collana degli Oscar, romanzi di altissimo livello al prezzo di una rivista, affinché a nessuno fosse preclusa la possibilità di acquistarli. Mi chiedono spesso, specie in questi giorni di utopie regressive, le stesse che Baumann chiamava “retrotopie”, per quale motivo mi occupi così tanto di scuola. Perché lì è racchiuso il senso di tutto, il senso delle nostre vite, la ragione del nostro stare insieme, la direzione che si vuole imprimere alla società. È a scuola, infatti, che si può imparare l’esclusione dei deboli o la grandezza dell’inclusione e dell’incontro.
È a scuola che una maestra può accendere in te l’amore per la cultura regalandoti un libro. È a scuola che io stesso ho imparato ad amare la storia, il lavoro di gruppo, la filosofia, il prendersi cura degli altri, il non lasciare indietro nessuno, la bellezza delle pagine di Lussu e di Rigoni Stern, che mi consigliò la professoressa Angela Incardona in terza media, ed è lì che si può modellare la comunità in un senso o nell’altro. Senza quella maestra, con ogni probabilità, non avremmo avuto un genio. E senza un’altra insegnante, probabilmente, non avremmo avuto il direttore della creatura giornalistica più riuscita di Mondadori: “Epoca”, ispirata all’americana “Life” e pensata apposta per i ceti popolari. A far decollare la rivista, con il racconto meticoloso del caso Montesi-Piccioni, fu nel ’54 un giovane Enzo Biagi, chiamato da Arnoldo a Milano dopo aver letto le sue corrispondenze per il “Carlino” dal Polesine alluvionato, quando Enzo indossò i panni del soccorritore più che del giornalista, prendendosi cura delle popolazioni poverissime di quei paesi che avevano perso il poco che possedevano. Non a caso, durante un’edizione del Premio Biagi, a Pianaccio, Sergio Zavoli, presidente della giuria, volle leggere alcuni passaggi di uno dei suoi reportage del novembre 1951. Enzo Biagi, figlio dell’operaio Dario e di Bice, che una volta promosse arbitrariamente suo padre a impiegato, e allora la mamma, quando glielo raccontò, lo accompagnò a scuola e disse davanti ai suoi compagni che doveva delle scuse all’intera classe perché aveva detto una bugia: suo padre era, per l’appunto, un operaio. Quell’insegnante capì ed Enzo, fino alla fine, ha sempre ripetuto di aver tratto da quell’esperienza una lezione fondamentale: non mentire mai al prossimo. Biagi, che su “Epoca” si inventò una rubrica di critica televisiva, raccontò l’Italia del boom e della speranza e fu sempre estremamente attento all’evolversi dei costumi. Biagi, che quando era ormai all’apice del successo, ormai considerato un “venerato maestro”, realizzò “Cara Italia” per raccontare ciò che accade nei paesi, chiedendo a gran voce che in televisione venisse dato spazio anche alla gente comune. Biagi, sposato con la maestra Lucia, che alla scuola e ai giovani ha sempre attribuito un’importanza fondamentale, al punto che, a ottantasei anni, affermava: “Dai giovani, anche alla mia età, si ha sempre qualcosa da imparare”. Non è un caso che a rendere grande l’invenzione di un uomo partito dalla polvere sia stato, dunque, il figlio di una famiglia di umili origini, che d’estate tornava nella natia Pianaccio e si fermava ad ascoltare i racconti invernali di un compagno di scuola che nella vita faceva il pastore. E non è un caso che a interrompere quell’esperienza siano state le pressioni inimmaginabili del presidente Tambroni, cui Biagi, dopo i fatti di Genova e Reggio Emilia dell’estate del ’60, aveva dedicato un editodiale dal titolo: “Dieci poveri inutili morti”.
Arnoldo Mondadori è stato l’editore della gente e per la gente, senza populismi di sorta, capace di portare nelle case degli italiani i fumetti di “Topolino” e di avvicinare così alla lettura anche bambine e bambini. E no, ribadiamo, non avrebbe mai sostenuto la barbarie escludente di questo tempo disumano, proprio come non l’avrebbe mai sostenuta Biagi, accomunato a quell'”italiano da esportazione”, per utilizzare una sua celebre definizione, dalla stessa passione per le persone semplici.
Le pagine più intense e significative sulla Milano di Mondadori le ho lette, a quattordici anni, in “Lettera d’amore a una ragazza di una volta”, il gioiello che Biagi dedicò proprio alla moglie Lucia, purtroppo scomparsa l’anno precedente, in cui ripercorre i momenti più importanti della loro vita insieme. In quelle pagine è racchiusa l’esperienza partigiana, la rinascita del Paese, l’affermazione individuale e collettiva, una certa idea di giornalismo, di umanità e di vita. E a quell’idea di mondo ho deciso di ispirarmi per la mia professione, per il mio rapporto con la scuola, per le mie inchieste e per le mie battaglie. È il minimo che si possa fare, d’altronde, per non essere ipocriti quando si ricorda un personaggio che con la furia cattivista di questa contemporaneità senza valori non ha nulla a che spartire. E, in conclusione, mi perdoni l’Arnoldo per l’affronto, mi torna in mente un altro racconto di Biagi, in questo caso dedicato al suo arci-rivale, a sua volta venuto dalla polvere, martinitt, apparentemente destinato alla sconfitta. Ci fu una volta, difatti, in cui Enzo andò da lui e gli riferì: “Mi ha detto don Zeno di Nomadelfia che domani non sa come dare la colazione ai suoi bambini”. E questi rispose: “Vuole un milione subito o due alla fine del mese?”. Si chiamava Angelo Rizzoli, “Erre” come la chiamava Mondadori un po’ per scherno. È a persone così che dobbiamo la vera ricostruzione dell’Italia. Ed è in quel contesto complessivo che venne chiamato ad alfabettizare un Paese in cui tanti, troppi, soprattutto le donne, firmavano ancora con la croce, un maestro elementare di nome Alberto Manzi, che sulle pagelle dei suoi bambini scriveva: “Fa quel che può, quel che non può non fa”.
Pertanto, se difendete chi sta smantellando la dignità dei più fragili, per convinzione o, il più delle volte, per servilismo, cortesemente, lasciate perdere Mondadori. E, già che ci siete, anche tutti gli altri, i quali vi avrebbero sicuramente fatto sapere cosa ne pensano di voi.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Alberto Asor Rosa, maestro e punto di riferimento di tutte e tutti noi. Con la speranza che la sinistra abbia ancora un futuro.
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