Se siamo venuti a conoscenza di quello che è accaduto a Mahsa Amini, la giovane iraniana che la polizia della morale ha picchiato a morte, a Teheran, perché non indossava bene il velo, lo dobbiamo a due coraggiose giornaliste, ora in carcere. Niloofar Hamedi, del quotidiano riformista Shargh, che è riuscita a entrare dentro l’ospedale dove la giovane venuta nella capitale da Saqqez stava morendo e a fissare sulle nostre coscienze, con un memorabile scatto, l’abbraccio senza speranza dei genitori di Mahsa – o Jina, come nella sua comunità curda veniva chiamata. Niloofar Hamedi: non c’è foto che non la ritragga sorridente e sicura; con l’hijab colorato, poggiato quasi a caso sulle spalle – come tutte facciamo, quando siamo in Iran: una ciocca fuori qua e una appuntata meglio là, per dare un po’ di movimento, conservare un po’ di noi oltre quel nulla seriale, a cui le regole della repubblica islamica vorrebbero confinarci. Niloofar che fa il segno della vittoria, in un’altra foto con sullo sfondo uno stadio di calcio dove – chissà come – è riuscita a entrare.
E la dobbiamo, questa storia di percosse e morte che sembra uscire da un altro tempo e sta scuotendo il nostro tempo – soprattutto quello dell’Iran – anche a Elahe Mohammadi. E’ stata lei a spingersi nel cuore curdo della periferia del paese, per documentare – che suono prezioso ha questa parola, nel nostro presente sommerso dalla post-verità dei social – la sepoltura di Mahsa Amini. Di notte, come avviene per tutti i giovani vittime della repressione. Ma non furtivamente, come pretenderebbe il regime – che altrimenti minaccia di non darti indietro i corpi dei tuoi figli e delle tue figlie. No: i genitori di Mahsa Amini hanno scelto di denunciare. E hanno potuto farlo perché avevano accanto gli occhi testimoni di una giornalista – una donna – a raccogliere la loro denuncia.
Eccolo, l’Iran. Quello che tutti pensiamo di conoscere, nei racconti stereotipati, furbescamente intessuti di nasi rifatti e chador. Come se in mezzo non ci fosse altro. Come spesso raccontiamo il Medio Oriente quando è donna: uno strano ma vero.
E invece in mezzo c’è l’arma potente della normalità. E così l’Iran è partito e nessuno sembra saperlo fermare. E nessuno sa dire come finirà. Salvo che non finisce. Ma non dobbiamo essere sorpresi davanti agli accadimenti. Perché quel grido “donna, vita e libertà” nato dalla morte come uno sberleffo, covava sotto la cenere di un lungo presente di convenzione e costrizione. Era nella battuta di Fatemeh *, in una notte buia durante la repressione dell’Onda Verde nel 2009, che dopo aver corso insieme tutto il tempo per raggiungere la postazione delle dirette, in quella cittadella fortificata che era diventata l’IRIB, la tivù di stato, ora occupata dai pasdaran, rispose al mio “ce l’abbiamo fatta, grazie a Dio!” con un ribelle: “No: grazie a noi!”. Era nella caparbietà di Amira, che dopo le manganellate prese dai Basij durante un corteo precipitato in pestaggi – ancora in quel giugno di 13 anni fa, carico di storia e di sangue – era di nuovo al mio fianco, a cercare dalle persiane di quale appartamento poter fare riprese degli arresti in strada, senza essere viste. Era ed è nelle gambe allenate di tante iraniane, che negli ultimi anni hanno scoperto il trekking perché in montagna i controlli – come l’aria – sono più rarefatti. E nel gioco della bottiglia che con sorpresa vidi fare a un gruppo di liceali di Isfahan – naqs-e jahan, la chiamano gli iraniani, “la metà del mondo” – Isfahan che ha chiuso i suoi bazar in solidarietà con la protesta. La bottiglia roteava sul prato e i ragazzi e le ragazze affidavano divertiti a quel vetro vuoto l’incertezza dei loro baci. E dei loro sogni. Per il timore nell’attimo di un bacio, recita uno dei versi di Baraye, di Shervin Hajipour, divenuto l’inno dell’irrefrenabile rivolta degli iraniani.
Quanti altri esempi potrei tirare fuori dai cassetti della memoria – che nel caso dell’Iran è davvero carne viva, perché è uno dei posti più faticosi al mondo dove lavorare eppure, un attimo dopo esserne uscita esausta, vorresti già rientrare. Le iraniane conservano i loro diritti nel segreto delle pareti domestiche; nel detto e non detto di nonne, madri e nipoti; nel rispetto che non smettono di reclamare dagli uomini. Nella capacità di vivere dissimulando – noi occidentali ne usciremmo a pezzi! – pur di esserci. Esserci sempre, tutte intere, anche se le leggi e i codici hanno voluto tagliarle, con i loro diritti, a metà.
E un giorno in questa loro battaglia di presenza – la libertà non è uno spazio libero, è partecipazione, ricorda in uno dei suoi versi più belli Giorgio Gaber – le iraniane si sono trovate a fianco le afghane. Diseredate anch’esse della prima ricchezza di chiunque voglia crescere consapevole e libero: il sapere. Le afghane che sono fuori da tutto: dal lavoro, dalle scuole superiori e ora anche dalle università. Le afghane che gridano, piangono e gettano i loro quaderni degli appunti nella polvere, dove sono finiti anche i loro progetti di futuro. Le abbiamo messe sulle copertine delle riviste e tra le donne dell’anno, anche quest’anno. Tre mesi fa a migliaia hanno superato i test di ammissione, ma oggi i kalashnikov sbarrano loro l’accesso ai campus pubblici e privati. Bello sarebbe vederle inondate, quelle migliaia di ragazze in lacrime, di borse di studio dal resto del mondo. Solo simboliche, certo. Ma un segnale che non distogliamo lo sguardo, che restiamo loro accanto.
Entriamo nell’anno che verrà – il nostro e quello delle iraniane e delle afghane, il prossimo 21 marzo, il Nowrooz l’equinozio di primavera – con la rabbia e la speranza di una battaglia nuova. Quella per i diritti universali contro un oppressore che sceglie le donne perché più di ogni altro è spaventato da loro. E annotiamoli nella mente, gli slogan dei cortei, gli occhi a mandorla puntati nei nostri, solidali e impotenti. Che la battaglia non è finita. Per loro. E in qualche misura anche per noi.
*I nomi sono di fantasia, per tutelarne l’anonimato