Gianni Bisiach è uno di quegli addii cui non si può mai dire di essere preparati. Certo, aveva novantacinaue anni, ma l’idea di dover rinunciare alla sua grandezza, alla sua incredibile cultura storica e alla sua passione politica e civile fa comunque male. Fu lui, per dire, a recarsi a Corleone, inviato da Enzo Biagi per Rotocalco Televisivo, e per la prima volta in televisione si sentì parlare seriamente di mafia e se ne vide il vero volto. Era la RAI più bella, quella che ha consentito Paese di crescere e di affrancarsi dalla miseria culturale nella quale era stato tenuto troppa lungo. Erano gli annidel boom, la stagione in cui tutto sembrava possibile e il telegiornale era un’istituzione che godeva del rispetto collettivo. Di Gianni Bisiach ci mancheranno molte cose, prima fra tutte la sua umanità, caratteristica che gli consentiva di ottenere sempre il massimo da qualunque interlocutore, fino a diventare uno dei migliori narratori del servizio pubblico, capace di condurre letteralmente i lettori e gli spettatori alla scoperta del mondo, in un viaggio interminabile che ha fatto appassionare molte e molti di noi a una materia, la storia per l’appunto, che non sempre la scuola riesce a far amare come meriterebbe.
Cento anni, poi, sono trascorsi anche dalla nascita di due geni: l’italiano Luciano Bianciardi, uno dei massimi esploratori del nostro costume e di una vicenda nazionale non sempre edificante, e l’americano Kurt Vonnegut, che visse da vicino l’inferno del bombardamento alleato su Dresda e si salvò in maniera piuttosto fortunosa, raccontando la sua esperienza in un gioiello intitolato “Mattatoio n. 5 la crociata dei bambini”. Non ci sono assonanze fra “La vita agra” dell’anarchico Bianciardi e la produzione e del grande narratore d’oltreoceano; fatto sta che a noi piace immaginarli uniti in un abbraccio ideale, due miti a confronto, punti di riferimento per intere generazioni di lettori e maestri di irriverenza e anticonformismo, ancor più preziosi oggi che l’omologazione è all’ordine del giorno e una certa furbizia d’accatto la fa da padrona.
A tal proposito, non si può non rendere omaggio alla lucida grandezza di Ennio Flaiano, l’anti-italiano per antonomasia, colui che sosteneva che da noi è impossibile fare le rivoluzione perché ci conosciamo tutti, il maestro dell’aforisma tagliente e della battuta destinata a segnare un’epoca, l’autore di “Tempo di uccidere”, il suo unico romanzo, vincitore del Premio Strega nel ’47, in cui rievoca la Guerra d’Abissinia, e il dissacratore per eccellenza. Era solito sostenere che il peggio che possa capitare a un genio è di essere compreso; infatti lui non lo è stato mai e continua, grazie a Dio, a non esserlo, conservando intatta la propria carica di leggerezza e corrosività, la propria furia vendicatrice nei confronti di ogni retorica e il proprio talento inimitabile nel mettere in ridicolo i nostri vizi e le nostre caratteristiche più insopportabili. Difficilmente uno come lui sarebbe piaciuto al Circo Barnum contemporaneo, meno che mai a una certa intellighenzia e a un certo mondo paludato dei talk show e di determinati salotti. Non a caso, lo rievocano in molti, quasi sempre avendone capito poco e non sapendo, o non avendo il coraggio di ammettere, che se fosse ancora fra noi, loro sarebbero i primi bersagli della sua inimitabile ironia.
Ne ha ha compiuti settanta anche Benigni, vecchio diavolaccio! È accaduto lo scorso 27 ottobre e ci rendiamo conto che, pur avendo compiuto qualche scivolone e pur avendo forse smarrito parte della sua antica meraviglia, legata all’invettiva e al suo costituire una versione contemporanea e cinematografica dell’Inno a Satana di carducciana memoria, di questo istrione nativo di Vergaio, in provincia di Arezzo, non riusciamo proprio a farne a meno. Ce lo ricordiamo ne “La vita è bella”, in “Pinocchio”, ne “La tigre e la neve” e in una miriade di altri film destinati all’eternità. Benignaccio è una componente essenziale del nostro stare insieme, come quando elogia e racconta i primi dodici articoli della Costituzione o compie delle memorabili letture della Divina commedia di Dante. Nel 2001, insieme a Biagi, ci regalò momenti di televisione che resteranno per sempre nella memoria collettiva, irridendo Berlusconi come solo lui sa fare e offrendo a spettatrici e spettatori il meglio del suo repertorio, di fronte a un Biagi in parte commosso e in parte incredulo per il trionfo di verve e buon gusto cui stava assistendo da vicino.
Francesco Rosi, dal canto suo, è stato il regista della denuncia e della sacrosanta indignazione. Da “Le mani sulla città” a “Il caso Mattei”, la cui sceneggiatura probabilmente costò la vita al giornalista de “L’ora” Mauro De Mauro, il nostro avrebbe recentemente compiuto cento anni. Se n’è andato a nivantadue, il 10 gennaio 2015, ma il ricordo è indelebile e la nostra stima immutata e destinata a durare e a rafforzarsi nel tempo. Di opere come le sue ne avremmo un disperato bisogno. Peccato che, proprio perché servirebbero come l’aria, in troppi stiano attenti a non realizzarle.
Infine, un pensiero colmo d’affetto e gratitudine a Carlo Lizzani, suicidatosi a novantuno anni nell’ottobre del 2013. Anche il suo cinema è stato miracoloso e bellissimo. Lui cent’anni li avrebbe festeggiati in aprile, ma abbiamo pensato che in questa compagnia ci stesse alla perfezione, e sicuramente avrebbe apprezzato la scelta.
A tutti loro rivolgiamo lo sguardo, in quest’autunno di solitudine che, shakesperianamente parlando, ci fa pensare a un “inverno del nostro scontento” destinato a durare ancora a lungo.
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