Lo scorso lunedì 21 novembre si è celebrata la giornata mondiale della televisione, istituita dalle Nazioni Unite nel 1994.
La vecchia scatola magica, che ha contribuito a plasmare l’immaginario collettivo come mai niente o nessuno, vive un periodo difficile.
Già il prossimo anno l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Uit) potrebbe mettere mano alla prelibata banda di trasmissione in Uhf, diminuendo le capacità diffusive a vantaggio del famelico mondo delle telecomunicazioni. Vedere la televisione di interesse generale gratuita sarà sempre meno un servizio universale e il consumo si tingerà di classismo. Nel 2032, poi, andranno in scadenza in Italia le licenze e si aprirà magari una indecifrabile nuova era.
In tutto questo, va ricordato che la regione interessata dalle scelte dell’Uit è quella che comprende sia l’Europa sia il Medio oriente, Qatar compreso.
Ecco perché le manifestazioni dei mondiali di calcio rischiano di avere le sembianze persino di un canto del cigno o di una ventata effimera. Salvo il passaggio allo streaming e alla rete.
Tuttavia, l’appuntamento sportivo ha aggiunto un ulteriore capitolo alla tipologia ben descritta ne «Le grandi cerimonie dei media», volume curato da due maestri della comunicazione come Daniel Dayan e Elihu Katz. Ed è, purtroppo, un capitolo delittuoso, visto che il baraccone dai costi mostruosi (210 mld di dollari spesi) è una tomba per le migliaia di lavoratrici e lavoratori morti per costruire mediocri cattedrali nel deserto. Dove si svolge un torneo finalizzato, tra l’altro, al mercato inquietante dei diritti televisivi: una zona oscura che attende da anni un giudice a Berlino.
Nel citato classico della letteratura mediale si descrivono alcuni tratti delle cerimonie la cui audience è potenzialmente l’intero villaggio globale. Per la precisione, lo share italiano è stato del 28,7%, al livello delle fiction di maggior successo o dei varietà del sabato sera.
Si parla della funzione riparatoria e del ruolo ideologico delle potenti e sfarzose messe in scena, capaci di occultare drammi e sfruttamenti, verità scomode e conflitti, mentre si inducono aspirazioni latenti o utopie alternative allo squallore della vita quotidiana. Non per caso, simili eventi si susseguono con cadenze scritte nei calendari delle ricorrenze: incoronazioni, genetliaci o funerali che siano.
Nello stadio di Al Khor, in un’ora abbondante, si sono susseguite esibizioni in chiave hollywoodiana delle culture locali o, meglio, delle aree contigue, essendo il Qatar uno Stato petrolifero più che una nazione. Insieme all’inevitabile richiamo identitario si sono toccate le corde cosmopolite evocanti le edizioni precedenti e si è fatto il verso alla drammaturgia seria con il dialogo tra Morgan Freeman (voce narrante) e il giovane imprenditore disabile Ghanim Al Muffah, tra cammelli e fuochi d’artificio.
L’apice della cerimonia, naturalmente, sono stati il discorso improbabile e farisaico del presidente della Fifa Gianni Infantino e quello dello sceicco Al Thani, in un contesto che ha visto seduti vicino amici e nemici: dal principe regnante dell’Arabia Saudita bin Salman accusato di essere mandante dell’omicidio del giornalista scomodo Khashoggi, al presidente egiziano al Sisi con la coscienza gravata dal caso Regeni, al turco Erdogan spietato con il popolo curdo, al segretario delle fragili Nazioni unite Guterres e a diversi capi di governo.
L’architettura dello spettacolo a cura del gettonato professionista Marco Balich ha reso la fattura dell’apertura assai omologata nelle linee generali a simili ouverture passate e probabilmente future.
Che in Qatar si faccia strame dei diritti, l’omosessualità sia al bando e le donne vivano sottomesse, o che il lavoro sia puro schiavismo non risulta dal luccichio della ennesima cerimonia dei media. Del resto, si tratta di un chiaro fenomeno di distrazione di massa ad opera dei moderni circenses. Molti tifosi delle squadre sono figuranti prezzolati e questa è la menzogna veniale, in un quadro rosso sangue come l’inferno.