Poche ore prima del fischio d’inizio della prima partita dei mondiali di calcio del Qatar (in cui l’Italia sarà rappresentata, in campo, dall’arbitro Orsato e, fuori dal campo, da 560 soldati inviati dal governo Draghi per garantire la sicurezza dell’evento), abbiamo assistito a una stucchevole conferenza stampa del presidente della Fifa, Gianni Infantino.
Una conferenza intrisa di retorica (“Oggi mi sento gay, arabo, lavoratore migrante” ecc.), di benaltrismo (“E allora i migranti che muoiono in Europa?”) e di terzomondismo d’occasione (“Chi siamo noi europei per dare lezioni di morale?”).
Alla domanda di Amnesty International, che lo insegue da maggio con la richiesta di istituire un fondo di 440 milioni di dollari per risarcire i lavoratori migranti che hanno subito danni durante la costruzione delle grandi opere per i mondiali e le famiglie degli operai morti, Infantino non ha risposto, se non aggirandola con quelle frasi stralunate.
Perché, ha proseguito, in Qatar tutto è andato bene. Il Qatar, a differenza dell’Europa, accoglie lavoratori migranti in un quadro legale e tutelante; se ci sono dei problemi, le riforme li risolveranno; ci vorranno anni ma è bene attendere con fiducia.
Con questo viatico si aprono i campionati del mondo di calcio della vergogna e dello sfruttamento. Da tifoso e appassionato di calcio, che rivorrebbe indietro il pallone sequestrato dalle strategie dello sportwashing, tiferò per una delle squadre che hanno aderito alla richiesta formulata da Amnesty International alla Fifa: Francia, Belgio, Germania, Olanda, Inghilterra, Galles, Australia, Usa. Per andare sul sicuro dal punto di vista dei diritti umani, tiferò Galles.
Ricordiamoci, ogni tanto, che quegli stadi sono stati costruiti col sudore e col sangue di persone che inseguivano il sogno di fuggire dalla trappola della povertà. Ci si sono ritrovate, in quella trappola, a un livello ancora più profondo. Tantissime sono tornate indietro. In una bara.
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