Diffamare e minacciare un giornalista è un fatto grave oppure si può derubricare adducendo qualche scusa raffazzonata fino ad arrivare a sostenere che il fatto non sussiste? Si potrebbero sintetizzare così le posizioni della pubblica accusa e della difesa emerse ieri a Bergamo, nel corso dell’ultima udienza del processo nei confronti di un cosiddetto “leone da tastiera”, che nel 2019 aveva scritto due post ostili su Facebook contro il giornalista Paolo Berizzi firma de “La Repubblica”. Paolo Berizzi è l’unico giornalista finito sotto la protezione delle forze dell’ordine per le minacce provenienti dell’estremismo di destra e da segmenti nazifascisti e, da oltre tre anni, vive una vita blindata, proprio in ragione delle pesanti minacce ricevute per il suo lavoro d’inchiesta su vecchie e nuove sigle del fascismo e del razzismo nostrani. Minacce replicate e amplificate anche sui social come dimostrato proprio dal processo in corso. In precedenza, a luglio, il giudice del Tribunale di Bergamo aveva rilevato la propria incompetenza nei riguardi di altri otto imputati, trasmettendo gli atti alle autorità giudiziarie delle sede di loro residenza. Ecco che così l’udienza di ieri, diventata un confronto uno a uno per la scomparsa dal processo in terra bergamasca degli altri imputati previsti inizialmente, è sembrata più volte trasformarsi paradossalmente in un dibattito a distanza tra posizioni e opinioni che, a partire dall’interrogatorio cui si è sottoposto l’imputato, ad un certo punto sono state presentate come entrambe legittime, seppure di segno opposto. Innanzitutto l’imputato G.F. ha cercato di alleggerire la sua posizione sostenendo che le sue invettive contro il giornalista erano maturate in un momento di sfogo, dovuto allo stress cui siamo stati tutti sottoposti in ragione del lockdown originato dalla nota pandemia. Peccato che il Covid19 sia esploso soltanto l’anno successivo ai fatti contestati..
Proseguendo nell’esame condotto dal suo avvocato, l’imputato ha poi dichiarato che il suo “sfogo” era stato motivato dal fatto che Berizzi avrebbe parlato male di una persona morta: nel caso specifico Fabrizio Piscitelli, detto “Diabolik”, ucciso il 7 agosto 2019 con un colpo di pistola alla testa nel parco degli Acquedotti a Roma, e non allo stadio come erroneamente nella sua replica il difensore avrebbe poi dichiarato.
Ad innescare il moto di rabbia prima e la reazione offensiva poi sarebbe quindi stato il pensiero del profondo dolore vissuto dalla moglie e dalle figlie di Piscitelli, un dolore, a suo dire, rinfocolato e reso ancora più crudele dai post di Paolo Berizzi, la cui unica “colpa” era stata piuttosto quella di ricordarne i trascorsi criminali per droga, estorsione e vicinanza ai clan mafiosi della Capitale.
Nell’interrogatorio è emersa la conoscenza tra G.F. e il Piscitelli, in esito al gemellaggio avvenuto anni fa tra le curve della Lazio e dell’Inter. Tra i due vi era un semplice legame di tipo calcistico e non quindi di natura politica. E del resto, anche nell’immediatezza dell’omicidio del 2019, “Diabolik” era noto alla pubblica opinione più che per il suo curriculum criminale, per essere uno dei leader della tifoseria della Lazio, il quale però così amava definirsi: “siamo fascisti, gli ultimi rimasti”.
Così, paradossalmente, in quell’aula l’imputato ha lasciato il posto al tutore di una presunta pubblica moralità che, sostenendo che non si deve parlare male dei morti (anche se criminali), considera invece piuttosto legittimo parlare male dei vivi (in questo caso Berizzi) che hanno parlato male di un morto, a tal punto da prefigurarne lo stesso decesso per mano violenta.
Infatti è da notare che uno degli insulti rivolti a Berizzi è stato il termine “infame”, che nel linguaggio della malavita e della mafia viene rivolto comunemente ai delatori o alle spie che notoriamente sono destinati a fare una brutta fine.
Da ultimo va anche ricordato che il “leone di tastiera” nel 2001 aveva già subìto una condanna per un reato di matrice razzista, allora sanzionato in ragione di convenzione internazionale, ma non è stato dato modo di parlare dell’accaduto in ragione del fatto che, interrogato dal giudice a tal proposito e supportato dal suo difensore, ha risposto con un candido e semplice “non ricordo, sono passati tanti anni”.
Tuttavia, anche senza poter sapere nulla della precedente condanna subita, per quei pochi di noi che ieri eravamo in aula è parso evidente ancora una volta che, nonostante i ripetuti tentativi di minimizzare l’accaduto nelle conclusioni del difensore, non si tratti affatto di un episodio isolato, ma che in filigrana si intravvedono collegamenti con un contesto che potremmo definire dei “professionisti dell’odio”. Quegli stessi “professionisti” che, spesso al riparo dell’anonimato, non si trattengono dallo spargere veleno, offendendo tutto e tutti.
Probabilmente più che ad un “leone” ci troviamo di fronte ad un piccolo “pesce”, che non avendo però preso le distanze da quella matrice criminale e fascista alle origini della vicenda, si trova così a nuotare dentro un ben più vasto acquario, dove invece altri si sono dimostrati ben più pericolosi e agguerriti. Il web non può essere una zona franca dove tutto è permesso.
Il pubblico ministero e le parti civili come Ordine dei giornalisti e Federazione nazionale della stampa non hanno chiesto una condanna esemplare, ma una giusta condanna. La richiesta del pm è per minacce e diffamazione è stata di due mesi, in ragione del rito abbreviato. La difesa di G.F. ha chiesto l’assoluzione e il rigetto dei risarcimenti richiesti dalle parti civili.
Vale sempre il principio di responsabilità personale, ma senza scordare l’abissale differenza tra chi usa la tastiera per diffamare e minacciare e chi invece la utilizza per dare informazioni, con professionalità e correttezza.
Il 25 novembre verrà pronunciata la sentenza nel nome del popolo italiano, che certamente ha il dovere di tutelare i giornalisti con la schiena diritta.
Testo tratto da Libera Informazione a cura di Lorenzo Frigerio e Rocco Artifoni