Devo raccontarvi una storia, una confessione personale e dolorosissima. Al liceo avevo una compagna, non era del mio corso ma la conoscevo bene. Questa ragazza, non credo per ragioni politiche, o forse non solo, amava portare i dreadlocks e aveva una professoressa che le abbassava i voti per questo motivo. Una discriminazione bella e buona, uno scempio, una vergogna insopportabile, tanto più a scuola. Ebbene, io ero favorevole a questa barbarie. Perché? Perché ero un cretino, intriso di cattiveria travestita da rispetto istituzionale, un benpensante da due soldi, un razzista involontario, una persona gretta e incapace di apprezzare gli altri per come sono realmente, pretendendo che tutte e tutti fossero a mia immagine e somiglianza. Nell’estate del 2021 ho avuto la fortuna di incontrare Lena Zühlke, la donna massacrata alla Diaz in una delle notti più buie dello Stato italiano. Lena porta, a sua volta, i rasta e quando ha cominciato a raccontarmi la sua storia, il suo martirio, l’indicibile e disumana violenza che ha subito, mi sono sentito morire. Lei mi ammirava ed era incredula di fronte a un giornalista che la ascoltava senza giudicarla, ma l’unica cosa che mi son sentito di dirle, al termine dell’intervista, è “Perdonami, se puoi”.
All’inizio, comprensibilmente, non capiva, così le ho spiegato chi ero davvero e cosa avevo fatto. Non so se sia degno della sua stima, ma una cosa la pensavo e la penso tuttora: le mani dei carnefici che hanno ridotto in fin di vita una ragazza di ventiquattro anni e l’hanno tirata per i capelli giù per due rampe di scale, completando l’opera con una raffica di sputi sul suo volto, quelle mani sporche di sangue le abbiamo armate noi. Le hanno armate quelli come me, anche se all’epoca avevo solo undici anni, quelli che giudicano gli altri senza comprenderli, quelli che puntano il dito senza cercare nemmeno di mettersi nei panni del prossimo, quelli che non hanno rispetto per le caratteristiche di chi è diverso da noi ma non per questo peggiore, quelli che si credono progressisti ma sono, in realtà, conservatori, belve senza pietà, senza umanità, spesso senza nemmeno la dignità e il coraggio di chiedere scusa.
Durante la mia inchiesta sui fatti di Genova, ne ho incontrate tante di persone come Lena. Donne meravigliose e umiliate in maniera indicibile, costrette a subire torture e violenze, schiaffi, insulti, offese e aggressioni di ogni sorta: da ciascuna di esse ho imparato tantissimo e continuo a imparare, perché ho voluto che restassero nella mia vita, con la loro dolcezza e la loro bellezza interiore. Alcune di loro sono insegnanti, il che mi rende ancora più felice. Immagino, infatti, quanta passione mettano ogni giorno nel proprio lavoro, quanto si battano contro ogni discriminazione, quanto contrastino le disuguaglianze, quanto detestino ogni forma di cattiveria e quante lezioni di vita diano ai loro ragazzi e alle loro ragazze, senza mai montare in cattedra e, anzi, prendendoli per mano e stando ben attente a non lasciare indietro nessuno.
Ministro Valditara, lei ha detto che “l’umiliazione è un fattore fondamentale per la crescita personale”. Sarei felice di farle conoscere l’agente di Polizia con cui ho trascorso tre ore al telefono pochi giorni prima di concludere la mia inchiesta. Mi parlava dell’importanza, per chi indossa una divisa, non solo di non umiliare nessuno ma di capire a fondo il bisogno di libertà, anarchia e ribellione che anima ciascun manifestante. Mi piacerebbe farle conoscere il mio amico Francesco Cardona Albini, il PM che descrisse in aula i dettagli del tormento cui era stata sottoposta Lena, parlandone con una passione e un trasporto emotivo che denotavano un senso altissimo non solo della giustizia ma della persona, nella sua unicità e nel suo valore che viene prima di tutto e prescinde da qualunque sentenza. Mi piacerebbe farle conoscere i PM e i GIP del processo di Bolzaneto, che si videro sfilare davanti quell’umanità straziata e ne rimasero scioccati. Vorrei tanto che ascoltasse le loro parole, il loro immedesimarsi, il loro considerarli alla stregua di figli, il loro cercare di indagare non solo sulla sofferenza che avevano patito ma sulle ragioni profonde che li avevano indotti a manifestare, in una società che, per avere un domani, ha bisogno anche di follia, di stravaganza, arrivo a dire persino di assurdità, anche perché la penso come Salvador Allende, indimenticabile presidente del Cile, vittima del golpe di Pinochet: “Essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione perfino biologica”.
Ministro Valdirara, lei ha parlato di stop ai cellulari in classe, ha detto che vorrebbe infliggere i lavori socialmente utili a chi si rende protagonista di comportamenti non consoni, ha ribadito il mantra del merito e dei doveri e ha chiarito, se ancora ce ne fosse bisogno, la sua visione del mondo. Io, invece, ribadisco che la scuola serve soprattutto per gli ultimi, per i fragili, per gli sbagliati, per chi viene dalla miseria, per chi è cresciuto in famiglie in cui non ci sono libri, per chi senza la scuola ha solo la strada a disposizione, con tutto ciò che questo comporta, e per chi altrimenti sarebbe perduto.
Ministro, io a quattordici anni, quando ero infarcito di idee sbagliate e tossiche, mi domandavo per quale motivo non fosse stato bocciato un mio compagno di classe che, alle medie, andava malissimo e insultava costantemente la professoressa di lettere. Quando, tanti anni dopo, gli ho visto salvare la vita a un barbone in coma etilico, mentre tutta la borghesia benpensante sfilava indifferente di fronte a quell’uomo seduto sul marciapiede, ho capito il perché e, ancora una volta, mi sono vergognato di me stesso e della crudeltà gratuita che io, senz’altro privilegiato rispetto a quel ragazzo, ero stato in grado di esprimere fino a quel momento.
Non voglio accusarla di nulla, sia chiaro, ma mi permetto di darle un consiglio: non utilizzi questi toni. Vede, ministro, questi toni, e l’ho capito a mie spese, guardandomi dentro fino a star male, rischiano di armare le mani dei carnefici e l’indifferenza di chi si volta dall’altra parte. Ma così la società viene meno, la giustizia viene meno, l’umanità viene meno, tutto ciò che ci rende ancora una comunità in cammino viene meno. E io ripenso a Patrizia Petruzziello, la PM che mi ha letteralmente sconvolto per il suo approccio a una professione tanto dura e difficile, quando mi chiese di parlare dei fatti di Genova nelle scuole perché lei non si sarebbe mai più voluta occupare di vicende così tragiche in un’aula di tribunale. Poco tempo dopo, ho avuto la fortuna di leggere il libro di una persona che ha ricoperto il suo stesso incarico prima di lei. In un passaggio scrive: “Il primo giorno di scuola una bambina piange seduta al banco accanto al mio. Cerco di rassicurarla, le dico: “Guarda che siamo in un bel posto, facciamo amicizia stai qui vicino a me”. Se penso a quell’immagine, sento ancora tanta tenerezza. A scuola si sta insieme e ci si dà la mano, non si lascia indietro nessuno”. Anche lei ha subito umiliazioni e offese a non finire, a dimostrazione di quanto quel veleno sia entrato nelle vene della nostra società e abbia devastato ogni cosa.
Non so quale paese lascerà al termine della sua esperienza, ma in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, mi sento di formulare un’amara previsione: dubito fortemente che sarà un’Italia migliore.
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